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Quale contributo
della Chiesa alla politica?







Chiunque si dedicherà a studiare la produzione teologica e magisteriale di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI noterà probabilmente che l’attenzione da lui concessa alla dottrina sociale della Chiesa non ha tanto rilievo come quella dispensata ad altri ambiti quali la Scrittura, la Liturgia o la Dogmatica.
Eppure, come succede in tanti campi del sapere teologico, il pensiero di Benedetto XVI possiede intuizioni e sviluppi molto illuminanti e veramente orientativi per rispondere alla domanda che ci siamo posti nel titolo. Il suo interesse per le relazioni Chiesa-mondo – cioè per la natura della Chiesa e la sua specifica missione nella società – e per le relazioni fede-politica – cioè per il messaggio proprio della fede cristiana sulle realtà politiche, economiche e sociali– ha dato vita ad un contributo decisivo per la dottrina sociale cattolica [1].
Ma questo apporto originale, a nostro avviso non va cercato nell’ambito dei problemi sociali concreti, bensì nelle riflessioni di fondo, nelle idee-chiave che danno un inquadramento teorico adeguato per capire che cosa può e deve fare la Chiesa per la politica e che cosa invece non spetta ad essa dire o fare.



Tra i molti testi che si potrebbero utilizzare come filo rosso di queste riflessioni prenderemo alcuni passaggi della sua enciclica Deus caritas est, perché consideriamo che contengono l’inquadratura teorica di base sul rapporto Chiesa-politica, sulla quale poggiano gli approfondimenti e sviluppi contenuti in altri scritti, soprattutto nella Caritas in veritate.



Questa sua prima enciclica non è una enciclica sociale ma una enciclica sull’amore. Essa ha due parti: la prima parla della natura dell’amore in Dio e negli uomini, la seconda –ed è quella che ci interessa– tratta «dell’esercizio ecclesiale del comandamento dell’amore per il prossimo» [2], cioè di che cosa deve fare la Chiesa come tale, istituzionalmente, per compiere questo comandamento dell’amore.
È proprio qui che il Papa comincia a parlare del «servizio della carità (diakonia)», dei suoi fondamenti biblici, delle forme che essa ha avuto lungo la storia, ecc. Afferma che insieme all’annuncio della Parola di Dio e alla celebrazione dei Sacramenti, la diakonia costituisce un compito essenziale nella vita della chiesa [3].



Ma in che cosa consiste questa diakonia?
Nello sforzo per chiarire la sua natura specifica, Benedetto XVI risponderà a una obiezione che alcuni hanno fatto all’attività caritativa della Chiesa e che viene formulata così: «invece di contribuire attraverso singole opere di carità al mantenimento delle condizioni esistenti, occorrerebbe creare un giusto ordine, nel quale tutti ricevano la loro parte dei beni del mondo e quindi non abbiano più bisogno delle opere di carità» [4].
In altre parole, la Chiesa non dovrebbe impegnarsi in «singole opere di carità» bensì nel «creare un giusto ordine» in termini di giustizia sociale, politica ed economica, che è quello di cui il mondo ha reale bisogno. Questa dovrebbe essere pertanto la forma adeguata di intendere questa diakonia che è essenziale alla missione della Chiesa.



Due sono gli argomenti che il Papa fornisce per respingere questa obiezione: che è sbagliato pretendere un protagonismo diretto della Chiesa nella realizzazione della giustizia sociale e, soprattutto, che la giustizia sociale è insufficiente per soddisfare le esigenze della natura umana e pertanto la carità sarà sempre necessaria.
Per un cattolico il secondo argomento è quasi evidente, ma il primo non lo è così tanto, o al meno non è stato sempre inteso in questi termini così netti.
Vale la pena seguire da vicino la spiegazione di Benedetto XVI al riguardo, che a nostro avviso si concentra nei tre aspetti fondamentali in cui abbiamo diviso questo studio:
1) le diverse missioni specifiche della Chiesa e della politica;
2) il contributo proprio della Chiesa all’ordine giusto della società, che consiste nella purificazione della ragione;
3) il ruolo dei laici nella Chiesa e nella politica.
















1 - Il compito della politica e la missione della Chiesa

I nn. 28-29 dell’enciclica contengono in nuce tutti gli elementi per tracciare l’identità della dottrina sociale secondo Benedetto XVI, anche se poi verranno approfonditi in altri discorsi e documenti. Lì si comincia per dire che l’impegno per la giustizia è certamente «necessario», ma che «il giusto ordine della società e dello Stato è compito centrale della politica. […]
Trattandosi di un compito politico, questo non può essere incarico immediato della Chiesa. […]
La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. […]
La società giusta non può essere opera della Chiesa, ma deve essere realizzata dalla politica» [5]. Dopo ognuna di queste affermazioni segue un’altra che ribadisce che non si deve pensare allora che la Chiesa sia indifferente ai problemi politici: essa ha di certo un contributo da fare, come si vedrà dopo, ma prima di tutto bisogna chiarire le ragioni di questa sorprendente insistenza nella loro distinzione.



Il fondamento di tali affermazioni è sempre questo: «alla struttura fondamentale del cristianesimo appartiene la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio (cfr. Mt 22, 21), cioè la distinzione tra Stato e Chiesa o, come dice il Concilio Vaticano II, l’autonomia delle realtà temporali» [6].
Con l’arrivo del cristianesimo e la conseguente universalità della salvezza portata da Cristo si è sciolta l’identità fra comunità politica e comunità religiosa tipica dei popoli antichi. Legato a questo, la religione cristiana porta come elemento assolutamente originale la demistificazione dello Stato, la negazione del carattere assoluto della politica, che pretendeva l’assorbimento degli ambiti religioso e morale con la promessa di una felicità terrena dove il successo politico veniva identificato con la vittoria degli dèi di ogni popolo.
In quest’ottica, l’idea cristiana di separazione tra politica e religione era garanzia di libertà e anche di razionalità, poiché non poneva la speranza dell’uomo in una realtà politica immanente, ma attribuiva alla politica la realizzazione della convivenza umanamente possibile e situava la vera speranza nella dimensione religiosa e nelle promesse escatologiche [7].



Questa distinzione propria ed originale del cristianesimo fra l’ordine religioso e l’ordine politico ha per il Papa due conseguenze:



A) rispetto allo Stato, esso «non può imporre la religione, ma deve garantire la sua libertà e la pace tra gli aderenti alle diverse religioni» [8].
Su questo versante si muovono tutte le critiche ai sistemi che non rispettano la libertà religiosa e anche a quelli che pur dicendo di rispettarla impongono nei fatti una ideologia secolarizzante che nega alla religione
ogni influsso culturale [9].



B) rispetto alla Chiesa, essa «non è e non intende essere un agente politico» [10], cioè non deve indicare in nome della fede come organizzare politica ed economicamente la società.



La ragione per cui la Chiesa non può indicare un tipo particolare di organizzazione sociale è prettamente teologica: la fede che essa custodisce non include nel suo messaggio una sintesi politica o economica particolare, ma un’etica e una visione del mondo che possono orientare moralmente –senza determinare politicamente– la ricerca della società più giusta [11].
È vero che storicamente non tutti i rappresentanti della Chiesa hanno saputo applicare correttamente questo principio, e per questo motivo Benedetto XVI celebra con audace umiltà il fatto che il Vaticano II abbia «ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa» quando fece suo il principio della libertà religiosa dello Stato moderno [12].



Molto significativo ci sembra l’enfasi del Papa nel collocare la determinazione delle strutture sociali giuste –del diritto– nell’ambito della retta ragione e non della fede, che non contiene soluzioni concrete. Per questo motivo afferma molte volte che la dottrina sociale della Chiesa «argomenta a partire dalla ragione e dal diritto naturale, cioè a partire da ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano» [13].
La sua origine è certamente la fede –essa è teologia–, e perciò può servire alla purificazione della ragione; ma nel momento di argomentare, di proporre la sua visione del mondo, non pretende che essa sia accettata per il fatto di basarsi sulla Rivelazione soprannaturale, ma vuole convincere la ragione naturale, e sa di poter farlo, per il semplice fatto che le realtà politiche non sono verità di fede ma appartengono a pieno diritto alla retta ragione [14].



Dunque «l’argomentazione razionale» e il «risvegliare le forze spirituali» sono la via attraverso la quale la Chiesa si inserisce nella lotta per la giustizia. E che dire del «servizio della carità»? Perché non viene elencata come contributo della Chiesa alla giustizia sociale? Perché non è quello il fine delle opere di carità.
Siamo davanti a due aree diverse della missione della Chiesa: il servizio della carità è «un suo opus proprium, un compito a lei congeniale, nel quale essa non collabora collateralmente, ma agisce come soggetto direttamente responsabile, facendo quello che corrisponde alla sua natura», mentre «la formazione di strutture giuste non è immediatamente compito della Chiesa, ma appartiene alla sfera della politica, cioè all’ambito della ragione autoresponsabile. In questo, il compito della Chiesa è mediato, in quanto le spetta di contribuire alla purificazione della ragione e al risveglio delle forze morali, senza le quali non vengono costruite strutture giuste, né queste possono essere operative a lungo» [15].



Riassumendo, possiamo dire che il Papa vuole lasciare molto chiaro che la Chiesa non deve né realizzare direttamente la società più giusta né indicare come deve essere costruita, poiché questi compiti appartengono alla politica, alla «ragione autoresponsabile».
Dicendo ciò la Chiesa non vuole togliere importanza all’impegno per un ordine sociale giusto; semplicemente afferma che non è questa la missione che il suo Fondatore le ha affidato. E inoltre non potrebbe neanche farlo, poiché il suo messaggio non contiene una sintesi politica particolare.
Ma il discorso non finisce qui: benché non sia suo compito proprio, la Chiesa offre un contributo prezioso alla ragione politica, affinché essa stessa possa realizzare una società giusta.
La modalità di questa collaborazione è quello che vedremo in seguito.







2 - La purificazione della ragione

Quando distingue gli ambiti della religione e della politica, Benedetto XVI descrive il fine proprio della politica: «La giustizia è lo scopo e quindi anche la misura intrinseca di ogni politica. La politica è più che una semplice tecnica per la definizione dei pubblici ordinamenti: la sua origine e il suo scopo si trovano appunto nella giustizia […].
Così lo Stato si trova di fatto inevitabilmente di fronte all’interrogativo: come realizzare la giustizia qui ed ora?» [16].
Attraverso le sue istituzioni la politica deve realizzare la giustizia in ogni società e in ogni epoca. Ma la giustizia «è di natura etica», sia la definizione della sua essenza, sia la sua realizzazione concreta.
Per il fatto di essere di natura etica, essa «è un problema che riguarda la ragione pratica», ed è qui dove viene chiamata in causa la fede, poiché la ragione pratica dell’uomo –l’intelligenza che guida l’agire umano verso il suo bene– è sempre minacciata da un «accecamento etico» che le impedisce di vedere e realizzare ciò che è giusto.
Se la politica fosse una realtà meramente tecnica non avrebbe bisogno di una fede che la purificasse: la ragione tecnica dell’uomo non sembra affatto minacciata, ma si sviluppa con una efficacia sbalorditiva.



In che cosa consiste questo «accecamento etico» della ragione?
Il Papa parla del «prevalere dell’interesse e del potere che l’abbagliano» e in qualche modo la fanno incapace di scoprire una giustizia che molte volte è contraria al «interesse personale», perché si tratta di un bene arduo che «sempre richiede rinunce» [17].
Non bisogna credere al dogma del peccato originale per avvertire l’oscuramento dell’intelligenza e la debolezza della volontà per vedere e realizzare il bene quando esso si trova in contrasto con l’interesse personale. Di fronte alla tentazione di fare dell’interesse personale il criterio ultimo di decisione, la fede ricorda che la giustizia deve stare al di sopra. Ma essa non lo fa come una imposizione esterna alla ragione pratica, bensì come una «forza purificatrice» che «l’aiuta ad essere meglio se stessa», a funzionare meglio. Questa dunque la umile pretesa della dottrina sociale: «essa vuole servire la formazione della coscienza nella politica e contribuire affinché cresca la percezione delle vere esigenze della giustizia e, insieme, la disponibilità ad agire in base ad esse, anche quando ciò contrastasse con situazioni di interesse personale» [18].
Il modo in cui essa svolge questo compito penso si possa riassumere nel ricorrente «argomentare», cioè insegnare a pensare i problemi sociali richiamando l’attenzione della ragione sui veri criteri di giustizia affinché essa stessa possa riconoscere il da fare.



Nell’enciclica non si offrono più dettagli su come contribuisce la Chiesa alla purificazione della ragione.
Ma chi percorre gli interventi di Benedetto XVI in materia si accorgerà di due ambiti cruciali in cui la fede ha una parola da dire:



A) Il concetto stesso di ragione.
Notevole è stato lo sforzo del Papa per evidenziare l’insufficienza del concetto moderno o illustrato di “ragione scientifica”, che vorrebbe riconoscere come “scientifico” –e pertanto universale e accettato da tutti– soltanto ciò che si adegua al modello delle scienze empiriche moderne, relegando alla sfera strettamente personale –non scientifica– tutte le realtà etiche e religiose.
Davanti a questo concetto limitato di ragione, l’invito del Papa –che d’altra parte ama riconoscere gli aspetti positivi dello «sviluppo moderno dello spirito»– è ad un «allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa» che possa «superare la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento, e dischiudere ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza», entrando in dialogo con la fede [19].



B) Il riconoscimento delle verità pre-politiche che fondano tutta la vita sociale dell’uomo.
La ragione politica deve determinare ciò che è giusto qui e ora, ma per farlo essa presuppone molte verità di natura antropologica ed etica la cui origine non si trova nella stessa politica, bensì in aree più fondamentali del sapere quali la filosofia e la teologia. Benedetto XVI si è riferito a queste verità con diversi nomi: sono i «grandi valori che danno senso alla vita della persona e ne salvaguardano la dignità» [20], che determinano «principi che non sono negoziabili» [21].
In fondo, si tratta del contenuto della legge naturale in quanto fondamento del diritto, quel «messaggio etico contenuto nell’essere» che è la «sorgente da cui scaturiscono, insieme a diritti fondamentali, anche imperativi etici che è doveroso onorare» a livello personale e sociale, e che non possono essere a disposizione della maggioranza di turno [22]. In questo senso insiste nel fatto che «questi principi non sono verità di fede anche se ricevono ulteriore luce e conferma dalla fede»: sono pienamente accessibili alla ragione, «prima di essere cristiani, sono umani» e perciò la Chiesa non realizza un’azione di carattere confessionale quando li difende, ma un contributo al risanamento della grave ferita causata alla verità della persona umana e alla giustizia stessa [23].

Lo sforzo della dottrina sociale per argomentare sempre più secondo ragione deve essere quindi ripagato dalla ragione politica moderna con una sua maggiore sensibilità per la verità in tutta la sua ampiezza.







3 - La Chiesa e i laici nella vita politica

Ma se il compito della Chiesa come tale in ambito politico è mediato, a chi corrisponde esso in modo immediato? Benedetto XVI risponde chiaramente: «il compito immediato di operare per un giusto ordine nella società è invece proprio dei fedeli laici».
Fino a qui la risposta si poteva intuire, ma l’interessante viene subito dopo: «come cittadini dello Stato, essi sono chiamati a partecipare in prima persona alla vita pubblica […] e sotto la propria responsabilità» [24].
Infatti, in ambito politico i laici non agiscono in quanto membri della Chiesa, come se essi fossero –fra gli altri componenti della comunità ecclesiale– i responsabili di realizzare un’azione propria della Chiesa, perché la politica non lo è, come ribadito a più riprese.



Queste considerazioni determinano le caratteristiche specifiche dell’attività dei laici nella vita sociale e anche quelle dell’attività dei Pastori della Chiesa.



Ai laici la loro vocazione cristiana esige la responsabilità per la giustizia della società in cui vivono, e cioè fare tutto il possibile per promuovere il bene comune dal posto in cui ognuno si trova. Giovanni Paolo II aveva già parlato di una «vocazione di costruttori responsabili della società terrena» [25], che bisogna intendere come parte importante della vocazione alla santità di ogni cristiano.
Né la fede né la Chiesa diranno loro che fare concretamente per migliorare le condizioni sociali, perché la politica è l’ambito della recta ratio e perché la dottrina sociale non offre soluzioni precise.
Ma questo non vuol dire che essi non debbano addentrarsi in questi campi nella misura delle loro capacità, che di solito sono maggiori da quanto pensiamo. Non lo fanno a nome della Chiesa, perché non è un’opera che appartenga alla missione della Chiesa ma alla loro condizione di cittadini. L’essere cristiano ovviamente influisce nel loro operare, ma non determinandolo nella sua forma politica –perché quello non fa parte del comune denominatore dei cristiani– bensì nel nucleo morale, come accade nel resto delle attività umane che si riferiscono alle realtà terrene [26].





"La missione del cattolico in ogni attività umana, politica, economica, scientifica, artistica, tecnica è tutta impregnata di ideali superiori, perché in tutto vi si riflette il divino."

Luigi Sturzo






Per questo motivo, quando Benedetto XVI parla della formazione che i Pastori devono dare ai laici in materia politica insiste nel fatto che «non rientra nella missione della Chiesa la formazione tecnica dei politici.
Ci sono, infatti, a questo scopo varie istituzioni.
È sua missione, però, “dare il suo giudizio morale anche su cose che riguardano l’ordine politico, quando ciò sia richiesto dai diritti fondamentali della persona e dalla salvezza delle anime... utilizzando tutti e solo quei mezzi che sono conformi al Vangelo e al bene di tutti, secondo la diversità dei tempi e delle situazioni” (GS 76)» [27].
La Chiesa, tramite i suoi Pastori, insegna ai fedeli ad essere buoni cristiani, il che ovviamente implica certe opzioni morali ineludibili in ambito sociale, che se vengono prese sul serio nella vita di ogni giorno hanno un influsso molto concreto sul bene comune. Ma è anche vero che esse non sono determinate politicamente in quanto esse hanno di tecnico od opinabile.
La frontiera fra il morale e il tecnico, fra l’accompagnamento e l’indicazione concreta, non è sempre chiara nel nostro complesso contesto sociale, e qui filosofia e teologia sono chiamate in causa per assistere le strutture pastorali a una «formazione delle coscienze» che non oltrepassi la legittima autonomia del laicato, oggi più che mai necessaria per spronare l’iniziativa e il senso di responsabilità.



***



Due idee a nostro giudizio riassumono l’audace contributo di Papa Benedetto fin qui descritto sull’idea del rapporto fra Chiesa e politica:



1) La Chiesa non ha alcuna sintesi politica che provenga dalla fede.
In questo ambito, la fede aiuta alla ragione, affinché essa stessa possa vedere ciò che è giusto, purificandola dagli interessi particolari ma senza dare ricette ready-to-go. A nostro avviso questo costituisce un appello del Papa a che la dottrina sociale si concentri nei principi fondamentali e non prenda posizione in nome della fede nelle discussioni sulle materie opinabili.
Allo stesso tempo esso è un appello a difendere questi principi con vere ragioni, senza risparmiare sforzi per trovare argomenti capaci di convincere la ragione naturale, invece di cercare rifugio nei cliché o negli argomenti di autorità.



2) La cosa migliore che la Chiesa può fare per la giustizia è compiere con tutte le sue forze la sua missione propria: dare ai fedeli l’educazione morale e i mezzi soprannaturali (orazione, catechesi, sacramenti, ecc.) perché siano buoni cristiani.
In questo modo ci saranno sempre più persone con una sana idea del bene comune e con energie spirituali sufficienti per influire efficacemente nei loro ambienti.
Quella sarà la vera rivoluzione, il vero contributo della Chiesa alla politica.




Si ringrazia,
Prof. Arturo Bellocq
Pontificia Università della Santa Croce - Dipartimento di Teologia Morale - Facoltà di Teologia




Argomento pubblicato su Blog CATTOLICI, il Raccoglitore Italiano di BLOG di Fedeli CATTOLICI...
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[1] Lo stesso Card. Ratzinger lo riconosceva nel 1991 in una conferenza: «A dire il vero, il puno di partenza del mio specifico itinerario nella ricerca teologica mi è sembrato a prima vista esser stato davvero molto distante da questa tematica [la dottrina sociale della Chiesa]; che tale lontananza però fosse solo apparente, mi è diventato sempre più chiaro, man mano che vi riflettevo» (Svolta per l’Europa?, Paoline, Cinisello Balsamo 1992, p. 49).

[2] DCE 1.

[3] Cfr. DCE 25.

[4] DCE 26. Abbiamo sottolineato i due termini che si cerca di opporre.

[5] DCE 28. Le stesse espressioni si trovano in altri discorsi importanti, come quelli ai partecipanti al IV Convegno Nazionale della Chiesa Italiana riuniti a Verona (19-X-2006) e alla V Conferenza Generale del CELAM in Aparecida (13-V-2007).

[6] DCE 28. Sottolineatura nostra.

[7] Queste idee le sviluppa in maniera magistrale in J. Ratzinger, Chiesa, ecumenismo e politica, Paoline, Cinisello Balsamo 1987, pp. 142-146. Nell’enciclica Spe salvi insisterà sulla profonda ragionevolezza di una fede che non promette un paradiso sulla terra ma pone la speranza nella vita soprannaturale, la cui pienezza arriva dopo la morte per il singolo e con il Giudizio finale e la nuova creazione per tutto il mondo.

[8] DCE 28.

[9] Di notevole chiarezza le parole rivolte ai rappresentanti della società britannica nel Westminster Hall (17-IX-2010).

[10] Benedetto XVI, al Convegno Nazionale della Chiesa Italiana (Verona). Ma cfr. anche le parole al 56º Convegno dell’Unione dei Giuristi Cattolici Italiani (9-XII-2006): «Non può essere pertanto la Chiesa a indicare quale ordinamento politico e sociale sia da preferirsi, ma è il popolo che deve decidere liberamente i modi migliori e più adatti di organizzare la vita politica. Ogni intervento diretto della Chiesa in tale campo sarebbe un'indebita ingerenza».

[11] Cfr. le parole rivolte al Bundestag (22-IX-2011): «Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, mai un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto».

[12] Cfr. Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana (22-XII-2005).

[13] DCE 28.

[14] Cfr. Benedetto XVI, Discorso ai rappresentanti della società britannica in Westminster Hall: «La tradizione cattolica sostiene che le norme obiettive che governano il retto agire sono accessibili alla ragione, prescindendo dal contenuto della rivelazione. Secondo questa comprensione, il ruolo della religione nel dibattito politico non è tanto quello di fornire tali norme, come se esse non potessero esser conosciute dai non credenti –ancora meno è quello di proporre soluzioni politiche concrete, cosa che è del tutto al di fuori della competenza della religione– bensì piuttosto di aiutare nel purificare e gettare luce sull’applicazione della ragione nella scoperta dei principi morali oggettivi».

[15] DCE 29.

[16] DCE 28.

[17] Cfr. ibidem.

[18] Ibidem.

[19] Cfr. Benedetto XVI, Discorso nell’Università di Ratisbona (12-IX-2006), ma anche il Discorso all’Università “La Sapienza”, dove è altrettanto chiaro l’appello del Papa all’uomo moderno a ricuperare la «sensibilità per la verità» dando ascolto alle «grandi tradizioni religiose» per trovare risposte agli «interrogativi fondamentali della sua ragione».

[20] Benedetto XVI, Discorso 56º Convegno dell’Unione dei Giuristi Cattolici Italiani (9-XII-2006).

[21] Benedetto XVI, Discorso al Convegno promosso dal Partito Popolare Europeo (30-III-2006), dove elenca alcuni di essi: la tutela della vita in tutte le sue fasi, il riconoscimento della struttura naturale della famiglia, la tutela del diritto dei genitori di educare i propri figli.

[22] Cfr. i discorsi sulla legge naturale all’Università Lateranense (12-II-2007) e alla Commissione Teologica Internazionale (5-XII-2008).

[23] Cfr. Benedetto XVI, Discorso al Convegno promosso dal Partito Popolare Europeo (30-III-2006).

[24] DCE 29. Le stesse espressioni userà nei discorsi al Convegno Nazionale della Chiesa Italiana (Verona) e nel Messaggio ai partecipanti alla 45º Settimana Sociale dei cattolici italiani (12-X-2007).

[25] Giovanni Paolo II, Enc. Sollicitudo rei socialis (30-XII-1987), n. 1.

[26] Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica (24-XI-2002), n. 3.

[27] Benedetto XVI, Discorso alla 24ª assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per i Laici (21-V-2010).













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"[...] Non abbiate paura!
APRITE, anzi, SPALANCATE le PORTE A CRISTO!
Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo.
Non abbiate paura!
Cristo sa "cosa è dentro l’uomo". Solo lui lo sa!
Oggi così spesso l’uomo non sa cosa si porta dentro,
nel profondo del suo animo, del suo cuore.
Così spesso è incerto del senso della sua vita su questa terra.
È invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione.
Permettete, quindi – vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia – permettete a Cristo di parlare all’uomo.
Solo lui ha parole di vita, sì! di vita eterna. [...]"


Papa Giovanni Paolo II
(estratto dell'omelia pronunciata domenica 22 ottobre 1978)



 
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