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Le reliquie della
Passione del Salvatore







In questo articolo, si prende in considerazione l’intervento del dott. Mario Prignano al primo incontro (14 novembre 2017) del Corso di formazione sui "Luoghi dei Santi a Roma – Memorie e Reliquie", organizzato dall'Ufficio per le Aggregazioni Laicali e le Confraternite in collaborazione con Ufficio catechistico del Vicariato di Roma.

Dopo la Pentecoste, a Gerusalemme sono martirizzati
Stefano, Giacomo il Maggiore e Giacomo il Minore;
gli altri apostoli si disperdono per diffondere il Vangelo
e Pietro e Paolo sono accolti benevolmente nell’Urbe.
La capitale dell’Impero diverrà così la sede di Pietro,
e la Chiesa, su di lui edificata secondo le parole del Redentore,
sarà il centro della missione evangelizzatrice fino
agli estremi confini della terra. Ciò avverrà tra molti ostacoli,
il primo dei quali è la cruenta repressione di Nerone,
che bagnerà del sangue di molti martiri il suolo della
città, che santa Caterina da Siena percorrendone le strade
affermava di sentir ribollire.
Con il passare dei secoli e dei millenni Roma accoglie le
più preziose e significative reliquie della Passione del Salvatore,
degli Apostoli e di innumerevoli Martiri e Santi.
Delle loro memorie e reliquie il corso di formazione intende
offrire itinerari, per la visita alle medesime nelle
chiese del Centro Storico ove sono custodite, fornendo le
essenziali note biografiche e l’indicazione dei luoghi nei
quali - secondo la documentazione storica e la tradizione –
questi amici di Dio hanno vissuto ed operato, ed esponendo
infine i modi e i tempi dell’arrivo in città delle loro reliquie.
Il Vicariato desidera così partecipare all’accrescimento
delle conoscenze delle Guide turistiche, dei Catechisti
e dei Cultori dei santi e delle reliquie per la loro
più estesa venerazione.
Si presentano inoltre le Lettere di San Paolo e le origini
della Riforma con lo stato odierno del cammino comune.
Ai partecipanti sarà riservata la partecipazione
a visite di luoghi di alta risonanza spirituale e artistica.


La relazione, di seguito riportata, dell'intervento del dott. Mario Prignano, sulle "Reliquie della Passione del Salvatore", è stata illustrata con immagini scelte da noi, per rendere più chiaro tutto il contenuto.



* * *





Il tema che mi è stato assegnato è molto impegnativo e richiede almeno una premessa. Non sono qui a dimostrare l’autenticità delle reliquie di cui parleremo: ci sono fior di studiosi e una bibliografia con migliaia di titoli.
Piuttosto racconterò la storia – affascinante – delle reliquie della passione custodite a Roma. Senza distribuire verdetti, ma, naturalmente, senza rinunciare alle mie opinioni e alle mie valutazioni.



Prima di cominciare è bene anche precisare:

1. Cosa si intenda con la parola reliquia;
2. Perché le reliquie erano e sono considerate così importanti per i cristiani,
3. Cosa dice oggi la chiesa a proposito delle reliquie.


Nel cristianesimo non tutte le reliquie sono uguali.

1^ classe: legate alla vita di Gesù e a quella dei martiri
2^ classe: legate alla vita quotidiana dei santi
3^ classe: cosiddette per contatto, ad es. con panno di lino accostato alla reliquia




A questo proposito il Catechismo della Chiesa cattolica definisce il culto delle reliquie come “espressione della pietà popolare” e “prolungamento della vita liturgica della chiesa”. Significa che non si può venerare una reliquia e non frequentare i sacramenti, non andare a messa. Dice infatti la Congregazione per il Culto divino, (2002) che in particolare i corpi dei santi “traggono origine e significato dal sacrificio di Cristo”.
Vuol dire che non sono le reliquie a compiere i miracoli ma la fede cristiana autentica di chi le venera, le reliquie. Una simile posizione mi conforta molto come cristiano. E come relatore in questa sede mi consente di sgombrare il campo da un equivoco:
Dimostrare l’autenticità di una reliquia, per quanto importante, non equivale a dimostrare la verità di quella fede. E viceversa, naturalmente. Perché la fede è un dono che interroga la libertà di ognuno.
Il culto delle reliquie (latino: resto, avanzo) non l’hanno inventato i cristiani. Si incrocia con il culto dei defunti, che attraversa un po’ tutte le antiche civiltà. Era presente nell’antica Grecia (culto degli eroi). Gli antichi popoli guerrieri si impadronivano degli oggetti dei nemici sconfitti per acquistare la loro forza. Anche l’Islam e il buddismo hanno conosciuto e conoscono un culto per le reliquie in questo caso di Maometto e di Budda.
Nel cristianesimo, l’idea del martirio, la morte come testimonianza di fede, si diffonde assai presto, già nel II secolo. Per i primi cristiani erigere una chiesa sulla tomba di un martire, ancor più farsi seppellire vicino a lui significa avere una protezione speciale.



Il primo documento sul culto delle reliquie risale al 156, è il “Martyrium Policarpi”. Originario di Smirne (Turchia), martirizzato a 86 anni, Policarpo era forse un cristiano di seconda generazione perché ai suoi aguzzini risponde: “Perché dovrei rinnegare Gesù che da quando sono nato non mi ha fatto niente di male?”.




San Policarpo




La svolta arriva nel 313. L’imperatore Costantino proclama la libertà religiosa nell’Impero romano (non il cristianesimo religione di stato…).
Le persecuzioni finiscono e il culto dei martiri inizia a diffondersi e ad essere praticato liberamente. Iniziano a sorgere molte chiese “ad corpus”, cioè edificate sulla tomba di un santo martire: san Sebastiano sulla Appia, san Lorenzo sulla Tiburtina, sant’Agnese, santi Pietro e Marcellino, san Paolo...
E naturalmente la più importante di tutte, voluta da Costantino in persona: San Pietro 1, sul colle vaticano.




Basilica costantiniana





Pianta basilica sovrapposta alla pianta del precedente circo di Nerone




Poi Costantino fa edificare un’altra basilica in una zona vicino all’antica Porta Asinaria, quartiere occupato da edifici maestosi degli imperatori Severi.
A differenza di tutte le altre, non è costruita sulla tomba di nessuno: perché è dedicata al Santissimo Salvatore, di cui però non esiste il corpo!
Più tardi sarà dedicata anche a San Giovanni Battista e San Giovanni Evangelista, ospiterà reliquie prestigiosissime come la testa dei santi Pietro e Paolo.
Diventerà la cattedrale di Roma 2.





Basilica di San Giovanni in Laterano
(riedificata sull'antica Basilica del Santissimo Salvatore)





Ciborio
(conserva le teste dei santi Pietro e Paolo)




Ma restiamo a Costantino.
Come si fa a venerare Cristo senza il suo corpo?
L’imperatore è impegnato a governare (impero e Chiesa: è lui in quegli anni – 325 – a presiedere il concilio di Nicea, il primo ecumenico della storia della Chiesa, che sconfigge l’arianesimo).
Tocca a Elena, sua madre, prendere di petto la questione. Cristiana come il figlio, anzi, secondo le fonti, ispiratrice della conversione del figlio, nel 326 Elena decide di compiere un pellegrinaggio a Gerusalemme. Come il figlio a Roma, in Terra Santa anche lei decide di dedicare una basilica a Cristo, sul luogo del suo martirio, il Golgota.
A maggior ragione qui, la chiesa non può essere un guscio vuoto.



Elena decide allora di cercare la croce:
Intrisa del sudore e del sangue di Cristo, la croce è certamente quanto di meglio si possa decidere di venerare in assenza del corpo.
Il più noto racconto della “invenzione” (in senso latino: ritrovamento) della croce lo dobbiamo a sant’Ambrogio, vescovo di Milano, che ne parlò durante l’orazione funebre per l’imperatore Teodosio, nel 395. Ambrogio riferisce che Elena trovò la croce e i chiodi, identificati grazie al cosiddetto “titulus”. È il cartiglio che, secondo la tradizione romana, indicava il motivo della condanna a morte e che a volte il poveraccio portava al collo.
Quello, per intendersi dove è scritto “Gesù Nazareno, Re dei Giudei”.
Con il tempo, la storia si è arricchita di particolari, sicuramente fantasiosi. È il caso della celebre “Leggenda aurea”, del domenicano Jacopo da Varazze alla fine del ‘200.
La leggenda è mirabilmente raffigurata due secoli dopo da Piero della Francesca nella chiesa di san Francesco ad Arezzo. La scena clou raffigura Elena che, per riconoscere la vera croce, fa fermare un corteo funebre e il morto, un giovinetto, si alza miracolosamente dalla bara quando gli viene accostata la croce di Gesù.





Ritrovamento delle tre croci e Verifica della vera croce
(Piero della Francesca) - Chiesa di San Francesco ad Arezzo




Alcuni storici mettono in discussione il ruolo di Elena (il cui viaggio a Gerusalemme è certo) perché non ne parla il biografo ufficiale di Costantino, Eusebio di Cesarea. Pur senza citare Elena, molte fonti fanno però risalire al tempo di Costantino la cosiddetta “invenzione della vera croce”.
Tra le tante, ricordiamo il vescovo di Gerusalemme Cirillo, che nel 351 scrive al figlio di Costantino, l’imperatore Costanzo II, che “durante il regno di tuo padre, prediletto da Dio, fu rinvenuto a Gerusalemme il legno salvifico della croce”.
Ma perché sant’Ambrogio ritenne di dover parlare della vera croce nell’orazione funebre per un imperatore?
Ambrogio è stato santo, vescovo e uomo politico, governatore e consigliere dell’imperatore. In qualche misura può essere considerato il fondatore del pensiero politico cristiano...

Lo si comprende quando riferisce che Elena donò al figlio due chiodi della croce.

- Uno incastonato nel diadema imperiale
- Uno nel morso del cavallo


Il primo, spiega Ambrogio, simboleggia la relazione tra l’imperatore e Cristo, l’origine divina del suo potere ma anche la sua responsabilità.
Il secondo la necessità di frenare l’orgoglio, proprio come il morso frena un cavallo scalpitante.
Una doppia simbologia che resisterà per molti secoli. Due chiodi prendono dunque la strada di Costantinopoli. E il resto?



Oggi l’idea di smembrare una reliquia ci scandalizza. Allora non era soltanto l’uso comune. Era anche l’unico mezzo per soddisfare la domanda fortissima dei fedeli di disporre di un reliquiario personale. La disinvoltura era tale che, riferiscono le fonti, a Gerusalemme, intorno al 380 due guardie vigilavano perché i pellegrini non staccassero a morsi pezzi della croce, nell’atto di baciarla durante la cerimonia del Venerdì Santo.

Elena decide di dividere in tre parti la croce:

- Una la fa portare a Costantinopoli;
- Una la lascia a Gerusalemme;
- Una la porta a Roma.


Ognuno di questi pezzi, le cui dimensioni originarie non si conoscono, subiscono traversie solo in parte ricostruibili.
[Teniamo presente che possederne anche solo una scheggia era segno di protezione divina e potere sugli umani. Farne dono ad una chiesa o ad un sovrano amico era come condividere un pezzo di paradiso, di cui il donatore si sentiva una specie di custode].



La parte a Costantinopoli entrò nel calderone delle reliquie dei re bizantini, oggetto di smembramenti, vendite e razzie, tra cui:

- IV crociata (1204): i franchi saccheggiano il palazzo imperiale (500 stanze e 30 cappelle): pezzi della croce finiscono nelle chiese e i monasteri di mezza Europa
- La parte a Gerusalemme viene rubata, ritrovata, portata in trionfo, persa di nuovo...
- Le sue vicende sono legate ai crociati e alle loro guerre. Una parte, forse la più consistente, fu persa in battaglia contro Saladino nel 1187, ai Corni di Hattin, che segnò l’inizio della riconquista islamica della Palestina.


A Roma, la reliquia subisce una sorte diversa. Elena risiede in un sontuoso palazzo imperiale del III secolo, il Sessorianum (da sedeo: vi si riuniva il consiglio imperiale al tempo di Eliogabalo), a due passi dalla basilica del Salvatore.
Per l’occasione Elena vi fa allestire una cappella aperta al pubblico (come da recenti studi), primo nucleo di quella che diventerà la basilica Sessoriana o Eleniana e, 200 anni dopo, Basilica di Santa Croce in Gerusalemme 3.
Oltre alla croce e altre reliquie, Elena porta anche molta terra del calvario, che sparge sotto il pavimento della cappella. Da qui il nome di “Hierusalem” dato alla chiesa. La reliquia della croce rimane per più di mille anni nella cappella voluta da Sant’Elena, ingrandita e trasformata nel 1200 in una chiesa a tre navate, in seguito abbellita con splendidi mosaici e affreschi.
...fino al 1700, quando con i lavori voluti da Benedetto XIV assume l’aspetto attuale.
Dopo il 1570, le reliquie cambiano di posto, spostandosi in una cappella meno esposta ai rischi dell’umidità.
Per tutto questo tempo l’uso di smembrare la reliquia per farne dono a re e principi cristiani, nonché importanti personalità ecclesiastiche da parte dei papi rimane in auge. Durerà fino a Pio IX...!



Nel 1629, in occasione dei 1300 anni della consacrazione della basilica di san Pietro, Urbano VIII Barberini ordina di trasportare lì il pezzo più grande. Lo fece incastonare in una delle 4 nicchie alla base dei piloni che sorreggono la cupola, attorno all’altare della Confessione, dove il papa celebra messa. Una di queste nicchie è dedicata a sant’Elena.
Oggi non è più lì, ma nella cappella della Veronica, di cui parleremo tra poco.




Basilica di Santa Croce in Gerusalemme





Interno





Le Reliquie




Nella basilica Eleniana rimangono tre pezzi della croce, custoditi in una stauroteca (da stauròs = croce) che risale ai primi dell’800, opera di Giuseppe Valadier.
Dei tre frammenti, il più grande misura 16 centimetri di altezza. Insieme misurano 35 cm cubi. Vorrei qui sfatare una convinzione diffusa a partire da Erasmo da Rotterdam e da Lutero: quella secondo cui con tutti i frammenti della croce in circolazione ci si potrebbe costruire una nave o un palazzo. Non è così. Vale la pena riportare la fonte, che in questo caso è il libro “Testimoni del Golgota”, di Michael Hesemann (2000).
Citando uno studioso francese della fine dell’800, Hesemann si prende la briga di contare una settantina circa di frammenti della croce grandi almeno un centimetro cubo sparsi dalla Polonia alla Spagna passando per l’Inghilterra, fino alla Grecia e Gerusalemme (oltre naturalmente all’Italia e soprattutto alla Francia).
Sommando questi frammenti si arriva ad una misura complessiva pari a 4.000 cm cubi. A questi potrebbero aggiungersi le innumerevoli schegge, di dimensioni minuscole, anche pochi millimetri, posseduti da privati, ma il totale cambierebbe di pochissimo. Oltretutto, bisogna considerare che non di tutti è provata l’autenticità. Tutti i frammenti esaminati tranne uno, ad esempio, sono di legno di pino.



A questo punto chiediamoci: quanto era grande la croce a cui fu appeso Gesù?

La croce era composta da tre parti principali, tutte in legno:

- Lo stipes, cioè il palo verticale piantato nel terreno;
- Il patibulum, cioè l’asse orizzontale, che il condannato portava a spalla fino al luogo del supplizio e su cui veniva inchiodato o legato con delle corde, per poi essere incassato sul palo verticale. Era un’operazione complessa.
- Il titulus, cioè il cartiglio dove, come abbiamo visto, si scriveva il motivo della condanna.


Secondo gli storici lo stipes comunemente usato dai romani per la crocifissione era alto non meno di tre metri.
Il patibulum misurava circa un metro e 80 (un metro e 78 misura effettivamente il patibulum riportato da Elena a Roma e attribuito a Disma, il buon ladrone del vangelo). Il titulus, invece, misurava 50 centimetri circa. Nel complesso, quindi, circa 36.000 cm cubi.
L’ipotesi più probabile è, a questo punto, che Elena non abbia ritrovato l’intera croce ma solo il patibulum, che del resto rappresentava la parte per così dire “mobile” della croce. (in effetti è esattamente quello che riporta Ambrogio nella sua orazione per Teodosio).



Nella cappella delle reliquie la basilica di Santa Croce in Gerusalemme conserva altre testimonianze della Passione
Tra queste c’è il chiodo.
La nostra fonte è ancora Ambrogio e con lui altri storici della Chiesa della fine del IV e del V secolo. Considerati i due incastonati, come abbiamo visto, nel diadema e nel morso del cavallo di Costantino, quello custodito in Santa Croce dovrebbe essere il terzo chiodo ritrovato da Elena.
È lungo 11 centimetri e mezzo e nel punto più largo misura nove millimetri. È rotto. Ha perduto la punta e sicuramente anche la capocchia, visto che quella attuale è stata montata successivamente. Originariamente doveva essere lungo circa 16 centimetri.
Immaginiamo la scena. Chiunque abbia schiodato il corpo di Gesù dalla croce (probabilmente con una tenaglia) non era certo preoccupato di preservare l’integrità del chiodo! La capocchia saltò via e magari la punta rimase conficcata nel legno... come potevano badarci?
Quanti erano i chiodi in totale? Oltre ai tre usati per le mani e piedi, potranno essercene stati al massimo altri 3 o 4 usati per il titulus e per fissare il patibulum allo stipes. Questo forse spiega l’esistenza di un altro chiodo annoverato da sempre tra le reliquie custodite nel duomo di Milano. Ma se c’è una reliquia che, nella storia della Chiesa, è stata riprodotta per contatto (reliquia di terza classe, ricordate?) Questa è il sacro chiodo. Lo dimostra l’inventario che riporta Heisemann: in giro per l’Europa, tra le cattedrali e i vari tesori, ce ne sono ben 33!
Non era solo il contatto a garantire l’autenticità di una reliquia. Lo si capisce dagli evidenti segni di limatura riscontrati sul chiodo di Santa Croce. Frammenti di polvere di ferro venivano fusi in un nuovo chiodo, che naturalmente riproduceva l’originale, e la reliquia era pronta.
Papa clemente VIII, per esempio, ne donò uno così nel 1500 al duca di Berry. San Carlo Borromeo donò molti chiodi che avevano toccato quello di Milano. E così via...



Poi ci sono le spine.
Le spine sono le sole reliquie della Passione custodite a Santa Croce che non si fanno risalire a Sant’Elena. La loro origine non è nota. Secondo alcune fonti le avrebbe portate Gregorio Magno nel 586, prima di essere eletto papa, quando era legato a Costantinopoli.
Le spine provengono da un tipo di rovo che cresce nell’area attorno a Gerusalemme fino a 7 metri di altezza. E sono compatibili con la famosa corona di spine scampata al saccheggio della IV crociata e acquistata per una cifra astronomica nel 1239 da Luigi IX di Francia dall’imperatore latino Baldovino. Anche di spine se ne trovano molte nelle chiese e nei monasteri di mezza Europa. Secondo i calcoli di Heisemann non sono meno di 193.
Vero che la corona, come sanno tutti gli studiosi, non era circolare ma semisferica, una specie di calotta, ma anche così il numero pare eccessivo e giustifica l’ipotesi di molte “reliquie da contatto”. Poi c’è la reliquia che secondo me è forse la più affascinante di tutte.



Il titulus.
Si tratta di una tavoletta di legno di noce piuttosto malconcia, che misura 25 cm per 14 circa, per uno spessore di poco meno di 5 centimetri. Pesa quasi 700 grammi.
Facciamo un balzo in avanti nel tempo. È il 1° febbraio 1492, una domenica.
Del titulus, se mai è esistito, nessuno ha memoria.
La basilica di Santa Croce è piena di operai, carpentieri, pittori, muratori: il cardinale titolare della chiesa, cardinale Pedro Gonzales Mendoza, ha ordinato un’importante ristrutturazione.
Bisogna riparare il tetto e abbassare il soffitto, e intonacare tutta la basilica. D’improvviso, alcuni imbianchini che dobbiamo immaginare abbarbicati sopra improbabili e pericolosissime impalcature, scoprono qualcosa. Sono al centro dell’arco che divide la navata dal transetto, a 19 metri da terra. Rivolto verso l’abside, dietro un leggero strato di intonaco, scoprono un piccolo buco, come una finestrella chiusa. Dentro, rivolta verso l’interno, scoprono una mattonella con la scritta “titulus crucis”. E nello spazio vuoto, un cofanetto di piombo legato da un cordoncino tenuto fermo da tre sigilli cardinalizi.
Dentro: il titulus!
Chi e perché l’ha murato lassù, a quasi 20 metri da terra??
I sigilli trovati attorno al cofanetto sono del cardinale Gerardo Caccianemici Dall’orso, titolare della basilica, eletto papa nel 1144 col nome di Lucio II.

L’ipotesi più probabile è che l’abbia sistemato così in alto:

- Per difenderlo da possibili razzie o furti
- Per simboleggiare la protezione sulla basilica nel suo punto più alto e più significativo, di fronte all’altare maggiore. Come una mano stesa a garantire benevolenza e difesa


Ma proviamo a vederlo più da vicino. Evidenziamo le frasi che vi corrono sopra.

Dal basso verso l’alto ci sono tre scritte in tre lingue diverse:

- Latino
- Greco
- Ebraico


La scrittura va da destra a sinistra, all’uso ebraico.
Nonostante il pessimo stato di conservazione, si possono distinguere le parole latine “i nazarinus re”, e l’equivalente in greco. Della parte ebraica rimangono solo alcuni segni, ma anche questi sono compatibili con le parole “nazareno re”.
Il nome Gesù è puntato (probabilmente perché si trattava di un nome assai comune a quel tempo in Palestina). Dunque: “Gesù nazareno re”. E i giudei? Per i vangeli c’era scritto anche “re dei giudei”. La conclusione di molti storici è che la tavoletta originaria sia stata tagliata in due, e la scritta “re dei giudei” sia rimasta a Gerusalemme, dove è andata dispersa.
La teoria è stata messa in dubbio di recente da uno dei più grandi studiosi del titulus, Maria Luisa Rigato, biblista e docente alla pontifica università Gregoriana.
La Rigato sostiene con forza l’autenticità del titulus che, però, a suo giudizio, è completo. E non è arrivato a Roma con sant’Elena. La sua tesi è che la tavoletta sia stata portata a Roma tra il 570 e il 614 da papa Gregorio Magno, in pratica insieme alle due spine, anch’esse conservate a Santa Croce in Gerusalemme.
Dibattito tra gli studiosi ha poi suscitato l’esame al carbonio 14, che nel 2001 ha collocato il titulus tra il 996 e il 1023. La Rigato ne parla in un suo dettagliatissimo studio pubblicato nel 2005. La sua opinione è che si tratti di un risultato su cui hanno influito alcune macchie bluastre, residuo di una resina usata anticamente per far risaltare le scritte. Dunque un esame dubbio. Se ne parlo in questa sede è perché mi sembra giusto invitare tutti, in generale, a rinunciare all’idea, così diffusa, che questi esami ci consegnino la verità. Come si è visto per la Sindone.
Nel medioevo esisteva il “giudizio di Dio”, oggi il carbonio 14. Non può essere così. Ma usciamo da Santa Croce e facciamo un giro per le chiese di Roma.



Non ce n’è una, tra quelle più cariche di devozione e di storia che non possegga una testimonianza della vita o della Passione di Gesù.

Citarle tutte sarebbe impossibile. Rappresentano duemila anni di storia della pietà popolare. Si va da

Alcune schegge del Sepolcro,
Frammenti della spugna imbevuta con cui fu dissetato Gesù sulla croce,
La tavola dove i soldati si giocarono a sorte la tunica,
E un pezzo di quella dell’ultima cena
Alcune manciate di terra dell’Orto degli olivi imbevute di sangue,
Una moneta con cui fu pagato Giuda,
Perfino la colonna dove il famoso gallo cantò tre volte...


A proposito di colonna, una che merita attenzione è quella custodita a santa Prassede, una chiesa poco frequentata dai turisti forse perché all’ombra di santa Maria Maggiore.
È una chiesa antichissima, edificata alla fine del 400, con splendidi mosaici risalenti al nono secolo.
Il suo pezzo più pregiato, però, fu aggiunto solo nel 1223, quando, di ritorno dalla V crociata, il cardinale Giovanni Colonna (nomen omen) vi portò la colonna della flagellazione.





Santa Prassede





Colonna della flagellazione




È piccola: 63 cm di altezza per un diametro che nella parte più stretta misura 13 cm. 20.
In cima è ancora visibile l’attacco per l’anello al quale veniva legato il prigioniero. L’anello fu scambiato con Luigi IX per tre spine della corona.... Il cardinale sostenne di averla trovata a Gerusalemme, ma secondo alcuni studiosi è più probabile che l’abbia ricevuta dai signori di Costantinopoli, continuamente minacciati dai turchi e interessati ad ottenere l’appoggio del papa, Onorio III.
Riguardo alla sua autenticità è certo che risale al I secolo. Per alcuni storici la colonna è composta da marmi egiziani troppo pregiati, mentre è opinione comune che sia la stessa colonna di cui parla nel suo diario la pellegrina Egeria, che visitò Gerusalemme nel 383.



Ma torniamo nelle grandi basiliche. Riprendiamo il discorso da quella di San Pietro. Uno dei quattro piloni della cupola ospita una statua di Gian Luigi Bernini.
Raffigura San Longino, il centurione che secondo i vangeli colpì Gesù al costato con la sua lancia. Ed è appunto la sacra lancia, la reliquia che è conservata nella cappella che sta sopra la nicchia. Proviene da Costantinopoli, dove era sopravvissuta alla IV crociata e alle brame di Luigi IX di Francia.
Dopo la conquista della città da parte dei turchi (nel 1453), il figlio di Maometto II decise di donarla al papa Innocenzo VIII a condizione che ...trattenesse a Roma suo fratello, pericoloso pretendente al trono.





Gian Luigi Bernini: San Longino (San Pietro in Vaticano)




In circolazione ci sono diverse lance, ma solo questa custodita in Vaticano è certamente risalente al I secolo. Viene esposta la prima domenica di Quaresima, ma a più di dieci metri da terra...
Tra le altre, merita di essere citata quella custodita a Vienna.
Hitler se ne impadronì durante la guerra convinto che possederla avrebbe recato il dono dell’invincibilità. Così non era, per fortuna. Fu restituita ai viennesi dopo la guerra. Poi si scoprì che era di epoca carolingia. Sull’angolo opposto a quello che ospita la cappella di san Longino si conserva la reliquia più misteriosa, la più venerata fino a tutto il Medio Evo e oltre.
I pellegrini diretti a Roma facevano di tutto per procurarsi una sua riproduzione di stoffa da cucire sul cappello, come unica e più importante traccia del loro passaggio nella città dei papi.



La Veronica
Nell’immaginario popolare si trattava del velo usato da una donna, Veronica, per asciugare Gesù durante la salita al Calvario (episodio peraltro non contemplato nei vangeli).
Ma cosa vedevano realmente i pellegrini del medioevo? Cosa vide Dante e cosa Petrarca, che la visitò durante il Giubileo del 1350?
Il pochissimo di certo, sull’argomento, è che in san Pietro c’è effettivamente un velo. È conservato nella cappella sopra la statua della Veronica e, come la sacra lancia, viene esposto una volta l’anno, la quinta domenica di Quaresima.





Statua della Veronica (F. Mochi)





Ostensione della Veronica - San Pietro in Vaticano




L’altezza del balcone è tale che non si può scorgere nulla. Il Vaticano non ha finora consentito di esaminare questo telo. I pochi che lo hanno visto da vicino parlano di una lamina dorata che lascia scoperto solo il volto: “vi si individuano occhi, naso, bocca e nulla più” (testimonianza del 1892 citata da Heisemann).
Un ecclesiastico e storico francese, Barbier de Montault, nel 1854, ne parla come di una superficie nerastra che addirittura “non sembra rappresentare un essere umano”!
Finchè non sarà consentito esaminarla, tra gli studiosi prevarrà la tesi secondo cui il velo autentico è andato perduto nel sacco dei Lanzichenecchi del 1527.
Se così fosse, quello attale potrebbe essere una delle tante copie in circolazione a partire soprattutto dal 1300. Le più famose vennero realizzate nel ‘600 da un canonico di san Pietro, Pietro Strozzi, per ordine di Paolo V.
Completare il percorso a ritroso della Veronica è un’operazione quasi impossibile.
La tradizione secondo cui su quel telo sarebbe impressa la vera immagine di Gesù (veronica = vera icona) presuppone un legame con la storia (mista a leggenda) di veli di cui non si ha più traccia.
Come quello di Camulia, comparso a Costantinopoli nel 574 e poi scomparso, o il “mandylion di Edessa”, appartenuto al re cristiano Agbar (contemporaneo di Gesù), e perduto – sembra – durante il sacco della IV crociata, La Veronica si incrocia anche con la storia della Sacra Sindone,




Volto Santo di Manoppello




E anche con il “volto santo” di Manoppello, in Abruzzo.
Questo sì è stato esaminato, tanto da verificare che non contiene pigmenti e dunque non è dipinto, la stoffa è trasparente. Perché la Chiesa non si è ancora pronunciata sul suo conto?
Alcuni sostengono che il “volto santo di Manoppello” sia la “vera veronica” scampata al sacco del 1527.



Tra questi “santi volti” non si può non citare l’acheropita per eccellenza: l’immagine del Salvatore custodita nel Sancta Sanctorum, la cappella di San Lorenzo nel Patriarchìo lateranense, l’antica cappella dei papi un tempo traboccante di reliquie, molte delle quali oggi in Vaticano.
L’iscrizione sopra l’altare recita “non esiste al mondo luogo piu’ sacro”.









Acheropita nella Cappella del Sancta Sanctorum




La leggenda vuole che questa immagine sia stata dipinta da San luca, le cui doti pittoriche sono effettivamente note. La venerazione che i romani hanno per questa icona, considerata miracolosa, è fortissima e molto antica. La sua presenza nel Sancta sanctorum è accertata a partire dal 752.
Dove fosse custodita prima e da dove fosse arrivata nessuno lo sa, anche se appare certa la sua origine orientale. L’acheropita è un telo di lino incollato ad una tavola di legno. Misura un metro e 43 cm di altezza e 56,8 cm di larghezza.
Ha subito molti restauri finché Innocenzo III decise di proteggerla con una lamina d’argento. Nei secoli è sempre stata portata in processione dai papi in occasione delle principali festività o in caso di calamità. Dal ‘500 queste processioni non si svolgono più ma l’icona, che prima poteva essere visitata solo dal papa, è divenuta accessibile a tutti i fedeli.



Bisogna salire i gradini della Scala santa.









Scala Santa




Secondo la tradizione è la scala d’accesso al palazzo di Pilato, perciò salita e discesa da Gesù almeno due volte.
Che provenga dal Medio Oriente è assai probabile, visto che è composta da 28 gradini di marmo bianco di Tiro (attuale Libano), da circa tre secoli ricoperti da tavole di noce per evitarne l’usura. Sembra che Costantino ne avesse adornato il suo palazzo Laterano.
Ma, come per molte altre reliquie, le prime notizie certe non vanno più in là dell’ottavo secolo. Nell’844 Sergio II la fece sistemare davanti alla basilica lateranense. Sopravvisse a vari terremoti e, dal 1589, per volere di Sisto V, si trova nel Patriarchìo. Gli operai furono costretti a sistemare i gradini dall’alto verso il basso, per evitare di calpestarli. In effetti avrebbero potuto calpestare per errore tre tracce di sangue che la pietà popolare vuole siano di Gesù.
Anche per questo i fedeli sono abituati a percorrerla in ginocchio.
Perché, come abbiamo detto all’inizio, la storia delle reliquie è sicuramente affascinante, ma può essere anche portentosa solo se accompagnata da autentica fede.







NOTE



1 - La politica di favore e, insieme, di controllo della trionfante religione cristiana, inaugurata da Costantino I con l'editto di Milano del 313 e culminata con la sua apparizione come basilèus isapòstolos (in greco βασιλεύς ισαπόστολος) al concilio di Nicea del 325, ebbe riscontro nella serie di edifici costruiti nei luoghi santi della Palestina e di Roma, che dettero vita alla nuova tipologia della basilica cristiana. La più antica fu quella di San Giovanni in Laterano ma un posto di rilievo spettò alla basilica di San Pietro, costruita sulla sepoltura dell'apostolo Pietro, segnata da una "memoria", cioè da una piccola edicola posta in una piazzola nella vasta necropoli vaticana, rimasta in uso dal II al IV secolo e posta ai margini del circo di Nerone, ai piedi del colle Vaticano.

Scavi archeologici hanno indagato la necropoli sorta fuori dal circo di Nerone, ai piedi del colle Vaticano, fatta interrare da Costantino sotto la basilica. Sono stati rinvenuti, ed in parte resi visitabili, numerosi mausolei del II e III secolo disposti lungo una via funeraria ed altre sepolture meno monumentali costruite intorno all'area identificata come quella della tomba di Pietro.
Privati delle volte ed interrati per realizzare la platea sancti Petri alcuni mausolei hanno conservato pavimenti, iscrizioni, pitture, stucchi e mosaici con raffigurazioni a volte di tema cristiano come il mausoleo dei Giulii, con Giona e la balena, il Buon Pastore, e Cristo sul carro del Sole, come Apollo.



2 - La Basilica di San Giovanni in Laterano, è la cattedrale della Diocesi di Roma e la sede ecclesiastica ufficiale del Papa, contenendovi la cattedra papale o Santa Sede. È inoltre la prima delle quattro basiliche papali e la più antica basilica d'Occidente. La sua denominazione completa è:

“Arcibasilica del Santissimo Salvatore e dei Santi Giovanni Battista ed Evangelista in Laterano, madre e capo di tutte le chiese della città e del mondo”



3 - La chiesa di Santa Croce in Gerusalemme è suddivisa in tre navate da 12 colossali colonne in marmo che poggiano su un bellissimo pavimento cosmatesco.
Molto suggestivo il soffitto ligneocon l’Apoteosi di Sant’Elena del Giaquinto, autore anche degli affreschi che decorano l’abside e il presbiterio, con la sola eccezione della Storia della Santa Croce, opera risalente al 400', considerata uno dei capolavori di Antoniazzo Romano
. Da una scala a destra del ciborio settecentesco si accede alla piccola Cappella di Sant'Elena, che conserva sotto il pavimento la terra del Santo Sepolcro. Sulla volta si conserva un magnifico mosaico raffigurante Cristo Benedicente, gli Evangelisti e Storie della Croce, realizzato da Baldassarre Peruzzi su disegno di Melozzo da Forlì.
Infine risalendo la navata sinistra si può accedere alla Cappella delle Reliquie, dove sono conservate frammenti autentici della Croce di Cristo, la croce di uno dei due ladroni, parte della corona di spine, un sacro chiodo e ilTitulus crucis. Sebbene la loro autenticità non sia del tutto certa, la tradizione vuole che le reliquie furono riportate da Sant’Elena in persona dopo il suo viaggio in Terra Santa.
Le reliquie della Croce erano inizialmente custodite nella cappella creata nel IV secolo dalla stessa Sant’Elena; nel XVI secolo furono trasferite per permetterne una più adeguata conservazione e nel 1931 trovarono la loro definitiva collocazione nell’attuale Cappella a cui si accede tramite un corridoio che simboleggia un’ideale ascesa al calvario.
Le Sacre Reliquie, poste in preziosi reliquiari realizzati tutti o in parte nel 1800, sono conservate in una teca di cristallo ed esposte così alla venerazione dei fedeli.













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"[...] Non abbiate paura!
APRITE, anzi, SPALANCATE le PORTE A CRISTO!
Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo.
Non abbiate paura!
Cristo sa "cosa è dentro l’uomo". Solo lui lo sa!
Oggi così spesso l’uomo non sa cosa si porta dentro,
nel profondo del suo animo, del suo cuore.
Così spesso è incerto del senso della sua vita su questa terra.
È invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione.
Permettete, quindi – vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia – permettete a Cristo di parlare all’uomo.
Solo lui ha parole di vita, sì! di vita eterna. [...]"


Papa Giovanni Paolo II
(estratto dell'omelia pronunciata domenica 22 ottobre 1978)



 
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