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San Francesco Saverio







Questo pioniere delle missioni dei tempi moderni, patrono dell'Oriente dal 1748, dell'Opera della Propagazione della Fede dal 1904, di tutte le missioni con S. Teresa di Gesù Bambino dal 1927, nacque da nobili genitori il 7-4-1506 nel castello di Xavier, nella Navarra (Spagna).



Francesco non sarebbe diventato un giurista e un amministratore come suo padre, né un guerriero come i suoi fratelli maggiori, ma un ecclesiastico come un qualunque cadetto del tempo. Per questo nel 1525 si recò ad addottorarsi all'università di Parigi sognando pingui benefici nella diocesi di Pamplona. Il suo incontro con Ignazio di Loyola fu provvidenziale perché lo trasformò da campione di salto e di corsa in araldo del Vangelo, da professore di filosofia in Santo. Assegnato nel collegio di Santa Barbara alla medesima stanza del Saverio, il fondatore della Compagnia di Gesù aveva visto a fondo nell'anima di lui, gli si era affezionato e più volte gli aveva detto: "Che giova all'uomo guadagnare anche tutto il mondo, se poi perde l 'anima? (Mc. 8,36). Più tardi Ignazio confiderà che Francesco fu "il più duro pezzo di pasta che avesse mai avuto da impastare" e il Saverio, nel fare quaranta giorni di ritiro sotto la direzione d'Ignazio prima d'iniziare lo studio della teologia, pregherà: "Ti ringrazio, o Signore, per la provvidenza di avermi dato un compagno come questo Ignazio, dapprima così poco simpatico".



Il 15 agosto 1534 anche lui, insieme al Loyola, nella chiesetta di Santa Maria di Montmartre fece voto di castità e di povertà e di pellegrinare in Palestina o, in caso d'impossibilità, di andare a Roma per mettersi a disposizione del papa. Anche lui, all'inizio del 1537, si trovò con gli altri primi sei compagni all'appuntamento fissato a Venezia, ma la guerra scoppiata tra la Turchia e la Repubblica Veneta impedi loro di mandare ad effetto il voto fatto. Ignazio e i suoi discepoli si dedicarono allora all'assistenza dei malati nell'ospedale degl'Incurabili fondato da S. Gaetano da Thiene e, dopo essere stati ordinati sacerdoti, alla predicazione per le piazze in uno strano miscuglio di lingue neo-latine. A Bologna specialmente il Saverio si acquistò fama di predicatore e di consolatore dei malati e dei carcerati, ma in sei mesi si rovinò la salute dandosi ad austerissime penitenze. S. Ignazio lo chiamò a Roma come suo segretario. Nella primavera del 1539 egli prese parte alla fondazione della Compagnia di Gesù e, l'anno dopo, fu mandato al posto di Nicolò Bobadilla, colpito da sciatica, alle Indie Orientali in qualità di legato papale per tutte le terre situate ad oriente del capo di Buona Speranza, in seguito alle insistenti preghiere rivolte da Giovanni III, re del Portogallo, a Ignazio per avere sei missionari.



Durante il penoso viaggio a vela, protrattosi per tredici mesi, il Saverio si sovraspese per l'assistenza spirituale ai 300 passeggeri facenti parte non certo della "buona società", nonostante che per due mesi avesse sofferto il mal di mare. Una notte, all'ospedale di Mozambico, avendolo il medico trovato tremante di febbre, gli ordinò di andare a letto. Poiché un marinaio stava morendo impenitente, gli rispose: "Non posso andarci. Un fratello ha tanto bisogno di me". Stabilitosi nel collegio di San Paolo a Goa, cominciò il suo apostolato (1542) tra la colonia portoghese che con la sua vita immorale scandalizzava persino i pagani. Poi estese il suo ministero ai malati, ai prigionieri e agli schiavi con tanta premura da meritare il titolo di "Santo Padre" e "Grande Padre". Con un campanello raccoglieva per le strade i fanciulli e ad essi insegnava il catechismo e cantici spirituali.



Dopo cinque mesi il governatore delle Indie lo mandò al sud del paese dove i portoghesi avevano costruito le loro fortezze, avviato i loro commerci e battezzato gl'indigeni e i prigionieri di guerra senza sufficiente preparazione. Molti di essi erano ricaduti nell'idolatria, come i pescatori di perle della costa del Paravi i quali, otto anni prima, avevano chiesto il battesimo per essere difesi dai maomettani. Francesco, che non possedeva il dono delle lingue, con l'aiuto d'interpreti tradusse subito nei loro idiomi le principali preghiere e verità della fede. Poi, per due anni, passò di villaggio in villaggio, a piedi o su disagevoli imbarcazioni di cabotaggio, esposto a mille pericoli, fondando chiese e scuole, facendosi a tutti maestro, medico, giudice nelle liti, difensore contro le esazioni dei portoghesi, salutato ovunque quale Santo e taumaturgo. "Talmente grande è la moltitudine dei convertiti - scriveva egli - che sovente le braccia mi dolgono tanto hanno battezzato e non ho più voce e forza di ripetere il Credo e i comandamenti nella loro lingua". In un mese arrivò a battezzare 10.000 pescatori della casta dei Macua, nel Travancore. Mentre era intento ad amministrare il sacramento, ricevette la triste notizia che 600 cristiani di Manaar avevano preferito lasciarsi uccidere anziché tornare al paganesimo. Ne provò un momento di sconforto: "Sono così stanco di vivere - scrisse - che la migliore cosa per me sarebbe morire per la nostra Santa fede". Lo rattristava il vedere commettere tanti peccati e non poterci fare nulla.



Benché continuamente a disposizione del prossimo, il Santo fu sempre trattato male da ufficiali e mercanti portoghesi, decisi a non permettere che la sua caccia alle anime intralciasse loro la ricerca di piaceri e di ricchezze. Noncurante degli uomini, negli anni successivi (1545-1547) egli aprì nuovi campi all'apostolato. Predicò per quattro mesi nell'importante centro commerciale di Malacca; visitò l'arcipelago delle Molucche; nell'isola di Amboina, presso la Nuova Guinea, riuscì ad avvicinare la popolazione impaurita di un villaggio stando seduto e cantando tutti gl'inni che sapeva; si spinse fino all'isola di Ternate, estrema fortezza dei portoghesi, e più oltre ancora, fino alle isole del Moro, al nord delle Molucche, abitate da cacciatori di teste. Colà agli ospiti indesiderati si servivano pietanze avvelenate. Quando il Saverio decise di visitarle, gli suggerirono di portare con sé degli antidoti, ma egli preferì riporre in Dio tutta la sua fiducia. "Queste isole - scriverà il 20-1-1548 - sono fatte e disposte a meraviglia perché vi ci si perda la vista in pochi anni per l'abbondanza delle lacrime di consolazione... Io circolavo abitualmente nelle isole circondate da nemici e popolate da amici poco sicuri, attraverso terre sprovviste di qualsiasi rimedio per le malattie e prive di qualsiasi soccorso per conservare la vita". Ciononostante egli pregava: "Non allontanarmi, o Signore, da queste tribolazioni se non hai da mandarmi dove io possa soffrire ancora di più per amore tuo". Dopo tre mesi di fatiche, tornò a Ternate. Il sultano regnante fece buona accoglienza al missionario, ma alla fede cristiana preferì le sue cento mogli e le numerose concubine. Raggiunta Malacca nel dicembre 1547, la Provvidenza fece incontrare al Saverio un fuggiasco giapponese, Anjiro, desideroso di farsi cristiano per liberarsi dal rimorso cagionatogli da un delitto commesso in patria.



Il Santo rimase talmente sedotto dalle notizie da lui avute sul Giappone e i suoi abitanti che concepì un estremo desiderio di andarli ad evangelizzare. Dopo aver provveduto per il governo del Collegio di San Paolo a Goa e l'invio di missionari nelle località visitate, parti per il Giappone in compagnia di Anjiro, suo collaboratore. Sbarcò a Kagoshima, nell'isola di Kiu-Sciu, il 15 agosto 1548. Il principe Shimazu Takahisa lo accolse gentilmente, e mentre egli studiava la lingua del paese, Anjíro convertiva al cattolicesimo oltre un centinaio di parenti e amici. "I Giapponesi - scrisse il Saverio in Europa - sono il migliore dei popoli". Quando il principe, sobillato dai bonzi, vietò ogni ulteriore battesimo, il coraggioso missionario decise di presentarsi addirittura all'imperatore e alle università della capitale, Miyako (Kyoto), ma a causa della guerra civile endemica le università non vollero aprirgli le porte e l'imperatore in fuga non volle riceverlo (1551), perché sprovvisto di doni e poveramente vestito. Si presentò allora in splendidi abiti e con preziosi doni al principe di Yamaguchí che gli concesse piena libertà di predicazione. In breve tempo egli riuscì a creare una fiorente cristianità che formò le delizie della sua anima" e ad estenderla nel vicino regno di Bungo.



Quando nell'inverno del 1551, richiamato da urgenti affari, il Saverio ritornò in India, in Giappone c'erano oltre 1.000 cristiani. Le fatiche avevano imbiancato i suoi capelli. Quante volte, sempre immerso nella preghiera, aveva dovuto camminare a piedi nudi e sanguinanti o passare a guado fiumi gelati! Quante volte, affamato e intirizzito, era stato cacciato dalle locande a sassate! Sovente cadde esausto sul ciglio delle strade. Per poter proseguire il suo viaggio talora dovette occuparsi come stalliere presso viaggiatori più fortunati.



Per i Giapponesi, i Cinesi erano i maestri indiscussi di ogni scibile. Essendosi sempre sentito opporre dai bonzi che se la religione cristiana fosse stata vera, i cinesi l'avrebbero già conosciuta, decise di andarli a convertire. Poiché la prigione o la morte erano la sorte che toccava a tutti gli stranieri che cercavano di entrare in quel paese, il Saverio organizzò un'ambasciata alla corte dell'imperatore della Cina, di cui egli avrebbe fatto parte. A Malacca però l'ammiraglio portoghese in carica, irritato perché non era stato scelto lui come ambasciatore, mandò a monte il progettato viaggio denunciando pubblicamente il Santo come falsificatore di bolle papali e imperiali. Senza lasciarsi abbattere dal grave colpo, l'illuminato apostolo il 17-4-1552 approdò all'isola di Sanciano con un servo cinese convertito, Antonio di Santa Fe. Colà trovò antichi amici che gli offersero ospitalità e un contrabbandiere che per 200 ducati si dichiarò disposto a sbarcarli segretamente alle porte di Canton. Ad un amico il Santo scrisse: "Pregate molto per noi, perché corriamo grande pericolo di essere imprigionati. Tuttavia, già ci consoliamo anticipatamente al pensiero che è meglio essere prigionieri per puro amor di Dio, che essere liberi per avere voluto fuggire il tormento e la pena della croce".



Il giorno stabilito il contrabbandiere mancò alla parola data. Nel rigido inverno, il Saverio si ammalò di polmonite, e privo com'era di ogni cura morì in una capanna il 3-12-1552 dopo avere più volte ripetuto: "Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me! 0 Vergine, Madre di Dio, ricordati di me!". Il suo corpo fu seppellito dal servo nella parte settentrionale dell'isola, in una cassa ripiena di calce. Due anni dopo fu trasportato, integro e intatto, prima a Malacca e poi a Goa, dove si venera nella chiesa del Buon Gesù.



Paolo V beatificò il Saverio il 21-10-1619 e Gregorio XV lo canonizzò il 12-3-1622. Si calcola che il Santo missionario abbia conferito il battesimo a circa 30.000 pagani. Il suo continuo peregrinare per lontanissime regioni diede ad alcuni l'impressione che fosse di temperamento volubile. Come legato del papa, pioniere, superiore e provinciale dei Gesuiti, era spiegabile che egli, ardentissimo della gloria di Dio e della salvezza delle anime, sospirasse di prendere visione del suo sterminato territorio per inviarvi gli operai occorrenti. S. Ignazio avrebbe preferito che, invece di pagare di persona, fosse rimasto ad amministrare le missioni dell'India, e avesse inviato a dissodare il terreno altri confratelli. La lettera che gli scrisse per richiamarlo, almeno provvisoriamente, in Europa, giunse quando egli era già morto.

Fonte:
Santi e Beati













Il proselitismo missionario di san Francesco Saverio





«Talmente grande è la moltitudine dei convertiti», scriveva san Francesco Saverio, la cui festa liturgica cade il 3 dicembre, «che sovente le braccia mi dolgono tanto hanno battezzato e non ho più voce e forza di ripetere il Credo e i comandamenti nella loro lingua». Sbagliava il gesuita missionario nel fare proselitismo? Ma proselitismo non è forse sinonimo di missionarietà e missionarietà non è forse evangelizzazione? Cristo stesso ordinò ai suoi discepoli: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28, 19-20). La Chiesa è nata, fin dal primo istante, missionaria.



In un mese san Francesco Saverio giunse a battezzare 10.000 pescatori della casta dei Macua, nel Travancore in India. Mentre era intento ad amministrare il sacramento, ricevette la triste notizia che 600 cristiani di Manaar avevano preferito lasciarsi uccidere piuttosto che tornare al paganesimo. Alla fine di gennaio del 1545, con la nave che ogni anno partiva da Cochin per il Portogallo, padre Saverio inviò tre lettere in Europa: una per il Re del Portogallo, Giovanni III, la seconda all’amico gesuita Simone Rodriguez, la terza ai suoi confratelli rimasti a Roma, accanto a sant’Ignazio di Loyola.



In quest’ultima parlava della conversione degli indiani proprio di Travancore, del battesimo del principe di Ceylon e della speranza di conquistare alla fede in Dio Uno e Trino l’arcipelago delle Celebes: «Ho fiducia in Dio, nostro Signore di poter fare più di centomila cristiani quest’anno». Concludeva chiedendo con insistenza l’invio di collaboratori missionari.



Questa lettera, lunga alcune pagine, fu copiata, diffusa e lanciata fra il grande pubblico, dove suscitò viva emozione. Il sovrano del Portogallo chiese subito che venisse letta dal pulpito di tutte le chiese del regno. Fu così che i cuori dei fedeli si infiammarono. Testimoni, spesso mercanti provenienti dall’Oriente, confermarono le buone notizie, affermando che maestro Francesco faceva migliaia e migliaia di conversioni. Gli appelli ardenti di Padre Francesco sollevarono lo zelo dei missionari. San Filippo Neri sognò di imbarcarsi per l’India, mentre Jérôme Nadal decise di entrare nella Compagnia di Gesù.



Tutto questo entusiasmo aumentò nel corso degli anni seguenti, grazie alle magnifiche lettere del santo che venivano pubblicate a Coimbra, a Lovanio, a Parigi, a Venezia, a Roma. Nelle sue opere Guillaume Postel, linguista, astronomo e umanista francese, dette libero sfogo alla sua ammirazione per Saverio «il quale ha fatto più nel poco tempo che è stato nell’Oriente della Terra Santa, di quanto sia mai stato fatto in qualsiasi altra parte del mondo…». Quando, due anni dopo la morte, si scoprì che il corpo era ancora intatto, la sua fama di santità e di taumaturgo si diffuse ancor più. Le gesta saveriane giungevano in Europa lasciando la gente interdetta: miracoli, tempeste placate, morti risuscitati, profezie, dono delle lingue… e conversioni di infedeli, chi diceva 500 mila, chi un milione.



Che cosa avrebbe detto il santo gesuita spagnolo di fronte alla seguente dichiarazione? «Non è lecito convincere della tua fede: il proselitismo è il veleno più forte contro il cammino ecumenico» (Papa Francesco, discorso a braccio nell’Aula Paolo VI, 13 ottobre 2016). Il Vangelo è chiaro, non possono esserci fraintendimenti. Infatti l’ecumenismo non è un’istanza cristologica, ma protestante, nata agli inizi del Novecento e trasferita nella Chiesa cattolica con il Concilio Vaticano II.



San Francesco Saverio è universalmente considerato pioniere delle missioni dei tempi moderni, patrono dell’Oriente dal 1748, dell’Opera della Propagazione della Fede dal 1904, di tutte le missioni con santa Teresina di Gesù Bambino di Lisieux dal 1927. Il 15 agosto 1534 si consacrò fra i primi sette membri della Compagnia di Gesù, insieme a sant’Ignazio Loyola, nella chiesetta di Santa Maria di Montmartre, dove fece voto di castità, di povertà, di obbedienza e di pellegrinare in Terra Santa o, in caso d’impossibilità, di andare a Roma per mettersi a disposizione del Papa. Giunsero a Venezia, ma non fu possibile salpare poiché era in corso la guerra fra veneziani e ottomani. Raggiunsero allora Roma e qui sant’Ignazio volle Francesco suo segretario.



Nella primavera del 1539 ricevettero l’approvazione di papa Paolo III della Compagnia di Gesù e furono ordinati sacerdoti. Nel 1540 il suo Superiore decise, seguendo la richiesta del Re del Portogallo, di inviarlo nelle Indie Orientali (per sostituire un confratello malato) in qualità di legato papale per tutte le terre situate ad oriente del capo di Buona Speranza.



San Francesco Saverio prese dimora al collegio di San Paolo a Goa e qui iniziò la sua missione instancabile, irrefrenabile…umanamente impossibile. Era il 1542. Il suo apostolato iniziò a dare frutti fin dal principio e si fece apprezzare ed amare fra i malati, i poveri, i ricchi, i prigionieri, gli schiavi. Tutti cominciarono a chiamarlo «Santo Padre» e «Grande Padre». Per le strade raccoglieva bambini e ragazzi e insegnava loro il catechismo.



Oggi il Papa gesuita, rispondendo a chi gli ha domandato che cosa fare in Sassonia, dove l’80% della popolazione non si dichiara appartenente a nessuna convinzione religiosa, ha detto: «L’ultima cosa che tu devi fare è: “dire”. Tu devi vivere come cristiano scelto, perdonato e in cammino. Tu devi dare testimonianza della tua vita cristiana”, che così arriva al “cuore” dell’altro, “e da questa afferma: «inquietudine nasce una domanda: ma perché quest’uomo, questa donna, vive così? Questo è preparare la terra perché lo Spirito Santo, che è quello che lavora, faccia quello che deve fare: lui deve fare, non tu”. “La grazia è un dono – ha ribadito Francesco – e lo Spirito Santo è il dono di Dio nel quale avviene la grazia: è il dono che ci ha inviato Gesù con la sua passione, morte e resurrezione. Sarà lo Spirito Santo a muovere quel cuore, con la tua testimonianza, perché ti domandi: e lì tu puoi, con molta delicatezza, dire il perché, ma senza volere convincere»
(Papa Francesco: ai luterani, “il proselitismo è il veleno più forte contro il cammino ecumenico”)



E invece san Francesco Saverio convinceva e convinceva proprio con la parola, così come aveva fatto Gesù, il Verbo fatto Carne («Et Verbum caro factum est, et habitávit in nobis»), e da quel suo dire e dai sacramenti che impartiva nascevano le opere di salvezza, le grazie e, talvolta, i miracoli. In tutto questo immenso apostolato lo Spirito Santo lo assisteva, lo illuminava, lo fortificava per compiere al meglio la sua missione.



Dopo cinque mesi di permanenza, il governatore delle Indie lo inviò al Sud, qui riportò al cattolicesimo i pescatori di perle della costa del Paravi, ricaduti nell’idolatria, i quali, otto anni prima, avevano chiesto il battesimo per essere difesi dai musulmani. Con l’aiuto di interpreti tradusse negli idiomi locali dottrina e preghiere. Per due anni viaggiò di villaggio in villaggio, a piedi o su imbarcazioni di fortuna, affrontando insidie e pericoli di ogni sorta per fondare chiese e scuole. Era maestro, medico, giudice, soprattutto pastore. E aprì nuovi campi all’apostolato.



Predicò per quattro mesi nell’importante centro commerciale di Malacca; visitò l’arcipelago delle Molucche, l’isola di Amboina, presso la Nuova Guinea e si spinse fino all’isola di Ternate, estrema fortezza dei portoghesi, e più oltre ancora, fino alle isole del Moro, al nord delle Molucche, abitate da cacciatori di teste. Qui agli ospiti indesiderati si servivano pietanze avvelenate, perciò gli suggerirono di portare con sé degli antidoti. Ma il suo unico antidoto era Dio e Dio lo ricompensava dei Suoi doni. «Queste isole», scrisse il 20 gennaio 1548, «sono fatte e disposte a meraviglia perché vi ci si perda la vista in pochi anni per l’abbondanza delle lacrime di consolazione… Io circolavo abitualmente nelle isole circondate da nemici e popolate da amici poco sicuri, attraverso terre sprovviste di qualsiasi rimedio per le malattie e prive di qualsiasi soccorso per conservare la vita», tuttavia era vivo, vivo per essere missionario di Verità.



Raggiunta Malacca, nel dicembre 1547 incontrò un fuggiasco giapponese, Anjiro, che desiderava abbracciare il cristianesimo al fine di liberarsi dal rimorso provocato da un delitto che aveva commesso. Saverio venne in tal modo indotto ad approdare in Giappone in sua compagnia. Sbarcò a Kagoshima, nell’isola di Kiu-Sciu, il 15 agosto 1548. Dal Giappone alla Cina. Il 17 aprile 1552 approdò sull’isola di Sanciano con un servo cinese convertito, Antonio di Santa Fe. Qui si ammalò di polmonite e, senza cure, spirò in una capanna il 3 dicembre di quell’anno ripetendo: «Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me! 0 Vergine, Madre di Dio, ricordati di me!». Due anni più tardi fu traslato prima a Malacca e poi a Goa, dove si venera nella chiesa del Buon Gesù.Paolo V lo beatificò il 21 ottobre 1619 e Gregorio XV lo canonizzò il 12 marzo 1622.



Ignazio di Loyola aveva voluto creare una profonda comunione spirituale con ognuno dei suoi missionari, perciò aveva loro raccomandato una corrispondenza regolare, dedicando a questo tema addirittura un capitolo delle Costituzioni e padre Francesco Saverio diede ascolto, nonostante la difficoltà delle “poste” dell’epoca… Inviò una decina di lettere affidandole alle navi che facevano ritorno in Europa: il viaggio dalle Molucche a Roma durava circa tre anni, mentre dall’India a Roma almeno 9 mesi.



Nel suo epistolario emerge l’animo di «questa grande fiamma di amore che brucia per sempre sulle rive dell’Estremo Oriente» come ebbe a definire Pio XII il santo delle Indie, una fiamma che osava dire, sicuro di non offendere perché parlava in Dio, come dimostrano queste eloquenti espressioni non politicamente corrette, indirizzate a Giorgio III del Portogallo: «Mettetevi in testa che se Dio vi ha dato l’impero delle Indie, è stato per mettervi alla prova […]. Non si tratta di riempire le vostre casse con le ricchezze dell’Oriente, ma di mostrare a Dio il vostro zelo, aiutando i missionari».

Si ringrazia:
Cristina Siccardi - Corrispondenza Romana














San Francesco Saverio, il Gigante delle Missioni d'Oriente





Francesco Saverio è stato, probabilmente, il più grande missionario della storia. Vissuto appena 46 anni e 8 mesi, compì in 10-11 anni un lavoro missionario incredibile. Nato cinquecento anni fa, il 7 aprile 1506, nel castello di Javier (o Xavier) nella Navarra (Spagna), a 15 anni si recò a Parigi per addottorarsi in filosofia all’università della Sorbona. Di grande ingegno, compì gli studi in maniera brillante, ma, non avendo molti mezzi finanziari, fu costretto a dividere la stanza che l’università affittava agli studenti con altre due persone: un giovane della sua età, giunto dalla Savoia, Pietro Favre, e uno strano studente di 38 anni, basco come lui, Ignazio di Loyola. Francesco fu incaricato di dare ripetizioni di filosofia al nuovo arrivato; ma nutriva una tale antipatia per Ignazio che lasciò a Pietro Favre il compito di ripetergli la filosofia aristotelica.



A poco a poco, però, e con grande fatica Ignazio riuscì a conquistarlo al suo ideale di vita: consacrarsi a Dio e all’apostolato. Così, il 15 agosto 1534, Francesco, insieme con Ignazio e altri cinque studenti della Sorbona, fece i voti di castità, di povertà evangelica e di recarsi in pellegrinaggio a Gerusalemme per convertire i turchi. Se ciò non fosse stato possibile, Francesco, Ignazio e gli altri compagni si sarebbero recati a Roma e si sarebbero offerti al papa per essere inviati da lui dovunque lo richiedesse il bene della Chiesa. Non essendo stato possibile raggiungere Gerusalemme, Francesco e i suoi compagni si recarono a Roma da papa Paolo III, che fu lieto di accoglierli, pensando di inviarli “in missione” in vari luoghi, in Italia e fuori d’Italia. Prima di separarsi, essi decisero di costituire un Ordine religioso, che si sarebbe chiamato Compagnia di Gesù, ed elessero come superiore generale Ignazio.



Nel 1540 fu la volta di Francesco ad essere inviato in missione. Il re del Portogallo chiese a Paolo III due gesuiti per l’evangelizzazione delle Indie: con questo nome si indicavano i territori conquistati dai portoghesi in Asia. Essendo venuta a mancare all’ultimo momento la persona designata, Ignazio chiese a Francesco di prenderne il posto. La risposta fu pronta: “Sì, eccomi”. Era il 14 marzo 1540. Il 15 marzo Francesco era in viaggio per Lisbona con il suo misero bagaglio. Il 7 aprile 1541, a 35 anni, partì dal Portogallo per le Indie. Aveva con sé una Bolla di Paolo III che lo nominava Nunzio apostolico in tutti i paesi asiatici. La circumnavigazione dell’Africa, durata 13 mesi, fu estremamente penosa per la scarsezza di acqua potabile e di cibo, per il caldo insopportabile, per le bonacce – la nave rimase ferma 60 giorni nel Golfo della Guinea – e le tempeste intorno al Capo di Buona Speranza.



L'EVANGELIZZAZIONE DEI BAMBINI ATTRAVERSO LE CANZONI

Goa, nell’India, era la capitale dell’Impero portoghese in Asia. Francesco vi giunse il 6 maggio 1542 e stabilì nell’ospedale della città il centro della sua attività, curando i malati, vittime del viaggio per mare: si fece loro schiavo, dormendo sulla nuda terra accanto ai più gravi per essere sempre pronto alle loro richieste. La cura dei malati, durante tutta la sua vita, sarebbe stata tra gli impegni principali del suo apostolato dovunque fosse andato. L’altro sarebbe stato l’assistenza spirituale ai carcerati e, soprattutto, ai mercanti e ai soldati portoghesi, la cui condotta non era certo esemplare, poiché, oltre a essere preoccupati soltanto dei loro traffici di spezie, avevano organizzato veri e propri harem di donne indiane e malesi. Anche a Goa diede inizio al suo metodo di apostolato: percorreva le strade e le piazze, gridando ai bambini e agli adulti di venire in chiesa ad ascoltare le sue istruzioni. In chiesa cominciava con cantare le lezioni da lui stesso messe in versi, che faceva ripetere ai bambini. Poi spiegava ogni punto della dottrina, adoperando soltanto le parole che i suoi uditori potevano comprendere.



Francesco rimase a Goa soltanto cinque mesi. Fu quindi inviato a Capo Comorin, nel Sud dell’India, per catechizzare i paravas, una tribù indigena che praticava l’immersione in acque profonde alla ricerca di ostriche perlifere. La tribù parlava il tamil e Francesco, che non aveva il dono delle lingue, si fece tradurre in tamil il Credo, il Pater Noster, l’Ave Maria e i 10 comandamenti e si mise a insegnarli ai bambini col metodo sperimentato a Goa. Il successo fu grande. Francesco scriveva a Ignazio, a Roma, che i bambini e i giovani, desiderosi di apprendere i rudimenti della fede lo assediavano a tal punto che non riusciva a trovare il tempo per recitare l’Ufficio, per mangiare e per dormire. Appena essi avevano imparato più o meno il Credo e le principali preghiere, Francesco li battezzava. Erano tanti che la mano di Francesco si stancava nell’amministrare il battesimo. Egli comprese allora che a quei bambini “apparteneva il regno dei cieli”.



DAL GIAPPONE AL "SOGNO PROIBITO" DELLA CINA

Francesco passò due anni tra i paravas in condizioni assai difficili: il cibo era scarso; dormiva poco, passando parte della notte in preghiera; era sempre solo; si spostava di villaggio in villaggio sotto un sole bruciante o sotto piogge a dirotto. Aveva grandi difficoltà col tamil e lo parlava male; ma il fuoco che sprigionava dalla sua persona, l’amore di Dio che infiammava ogni suo gesto, l’amore che nutriva per tutti, in particolare per i poveri, i malati e i bambini, gli attiravano molte anime semplici, che pur senza comprendere tutto quello che diceva, chiedevano di essere battezzate.



Francesco si trovava nel Sud dell’India, quando venne a sapere che una comunità di cristiani che si trovava nelle Molucche (l’odierna Indonesia) era senza sacerdoti e priva di ogni aiuto spirituale. Come Nunzio apostolico per tutto l’Oriente, si sentì in dovere di recarsi nelle Molucche per portare aiuto a quei cristiani abbandonati. Perciò il 1° gennaio 1545 s’imbarcò per Malacca, che era il centro commerciale portoghese più importante, e di là raggiunse l’isola di Amboina, distante 1.740 miglia. Il viaggio dall’India a Malacca e da Malacca ad Amboina fu particolarmente pericoloso, a causa delle tempeste, dei bassi fondali e dei pirati; ma Francesco era solito affrontare i peggiori pericoli con una totale fiducia in Dio. Giunto ad Amboina, vi restò tre mesi; poi partì per l’isola di Ternate.



Tornato a Malacca, sentì parlare per la prima volta di un paese chiamato Cipang, Giappone. Era un paese particolarmente disposto – riteneva Francesco – a convertirsi al Cristianesimo. Pensò perciò di dovervi andare. Dopo essere tornato a Goa per assegnare il lavoro ai nuovi gesuiti giunti dall’Europa, Francesco partì per Malacca e di là s’imbarcò su una giunca di un marinaio cinese che si era impegnato a condurlo in Giappone. Vi giunse il 15 agosto 1549, ma subito si rese conto che si era fatto molte illusioni sulla possibilità di convertire il Giappone. Non riuscì, infatti, a incontrare l’imperatore dopo un viaggio a piedi a Miyako, che fu il più terribile della sua vita; fu deriso dai bonzi e, quando lasciò il Giappone, due anni dopo, soltanto 500 giapponesi si erano convertiti al Cristianesimo. Ma la porta era stata aperta.



La partenza fu determinata dalla convinzione che il Giappone si poteva convertire soltanto dopo la conversione della Cina, ma questo paese era proibito agli stranieri. Solamente qualche commerciante cinese avrebbe potuto introdurlo dietro compenso. Così, Francesco partì per la Cina e si fermò sull’isola di Sancian, di fronte a Canton. Si era accordato con un mercante cinese, ma questi non si fece vedere. Era il mese di novembre 1552, e Francesco fu colto da una violenta febbre. Infreddolito e senza cibo, morì all’alba del 3 dicembre, senza poter ricevere i sacramenti. Fu sepolto il giorno dopo, senza che sulla sua tomba fosse posta una croce. La sua fu una morte misera, ma non infruttuosa: proprio due mesi prima, era nato a Macerata colui che avrebbe aperto le porte della Cina al Cristianesimo e realizzato il sogno di Francesco Saverio: Matteo Ricci.

Fonte:
Famiglia Cristiana













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"[...] Non abbiate paura!
APRITE, anzi, SPALANCATE le PORTE A CRISTO!
Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo.
Non abbiate paura!
Cristo sa "cosa è dentro l’uomo". Solo lui lo sa!
Oggi così spesso l’uomo non sa cosa si porta dentro,
nel profondo del suo animo, del suo cuore.
Così spesso è incerto del senso della sua vita su questa terra.
È invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione.
Permettete, quindi – vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia – permettete a Cristo di parlare all’uomo.
Solo lui ha parole di vita, sì! di vita eterna. [...]"


Papa Giovanni Paolo II
(estratto dell'omelia pronunciata domenica 22 ottobre 1978)



 
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