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San Paolo e le origini
della Riforma
Alla ricerca di un
cammino comune







Si è tenuta in data 5 Dicembre 2017, la IV lezione del corso di formazione sui "Luoghi dei Santi a Roma – Memorie e Reliquie", organizzato dall'Ufficio per le Aggregazioni Laicali e le Confraternite in collaborazione con Ufficio catechistico del Vicariato di Roma .

Dopo la Pentecoste, a Gerusalemme sono martirizzati
Stefano, Giacomo il Maggiore e Giacomo il Minore;
gli altri apostoli si disperdono per diffondere il Vangelo
e Pietro e Paolo sono accolti benevolmente nell’Urbe.
La capitale dell’Impero diverrà così la sede di Pietro,
e la Chiesa, su di lui edificata secondo le parole del Redentore,
sarà il centro della missione evangelizzatrice fino
agli estremi confini della terra. Ciò avverrà tra molti ostacoli,
il primo dei quali è la cruenta repressione di Nerone,
che bagnerà del sangue di molti martiri il suolo della
città, che santa Caterina da Siena percorrendone le strade
affermava di sentir ribollire.
Con il passare dei secoli e dei millenni Roma accoglie le
più preziose e significative reliquie della Passione del Salvatore,
degli Apostoli e di innumerevoli Martiri e Santi.
Delle loro memorie e reliquie il corso di formazione intende
offrire itinerari, per la visita alle medesime nelle
chiese del Centro Storico ove sono custodite, fornendo le
essenziali note biografiche e l’indicazione dei luoghi nei
quali - secondo la documentazione storica e la tradizione –
questi amici di Dio hanno vissuto ed operato, ed esponendo
infine i modi e i tempi dell’arrivo in città delle loro reliquie.
Il Vicariato desidera così partecipare all’accrescimento
delle conoscenze delle Guide turistiche, dei Catechisti
e dei Cultori dei santi e delle reliquie per la loro
più estesa venerazione.
Si presentano inoltre le Lettere di San Paolo e le origini
della Riforma con lo stato odierno del cammino comune.
Ai partecipanti sarà riservata la partecipazione
a visite di luoghi di alta risonanza spirituale e artistica.


La relazione, su "San Paolo e le origini della Riforma. Alla ricerca di un cammino comune", di seguito riportata, è tratta dall'intervento di Mons. Andrea Lonardo, direttore dell'Ufficio catechistico del Vicariato di Roma.

Per completezza e chiarezza, è stato opportuno inserire, in corsivo e contenute all'interno delle parentesi [...], parti di testo provenienti da altre fonti.







1 - È più grande ciò che ci unisce di ciò che ci divide







1.1 - Principio teologico e spirituale che illumina ogni dettaglio e che quindi illumina ogni successivo discorso



Giovanni Paolo II, Enciclica Ut unum sint, 20
Così credeva nell'unità della Chiesa Papa Giovanni XXIII e così egli guardava all'unità di tutti i cristiani. Riferendosi agli altri cristiani, alla grande famiglia cristiana, egli constatava: "È molto più forte quanto ci unisce di quanto ci divide".

Papa Francesco discorso tenuto il 31/10/2016 a Malmö in Svezia
«Tra di noi è molto più quello che ci unisce di quello che ci separa». Ne è segno anche il lavoro comune che luterani e cattolici fanno insieme per testimoniare nell’amore verso gli uomini la scoperta che Dio è amore







1.2 - Lo sguardo è ormai quello del Concilio Vaticano II che mostra come la discussione sul principio della sola Scriptura sia totalmente superato: Gesù è la Parola



Dei Verbum: la Parola di Dio completa è Gesù: noi non siamo un “popolo del libro”
La Parola di Dio è trasmessa dalla chiesa
La Parola di Dio è messa per iscritto come “regola” della fede. La Bibbia è Parla di Dio, non è “la” Parola di Dio

Tutte le lettere di san Paolo brillano della consapevolezza che il volto di Dio ci è stato rivelato in Gesù

Cfr. la Lettera ai Romani, la più importante per tutta la Riforma, scritta proprio ai cristiani di questa città

Rom 1,1-4 Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio – che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore;

1 Tes 2,13 Noi rendiamo continuamente grazie a Dio perché, ricevendo la parola di Dio che noi vi abbiamo fatto udire, l’avete accolta non come parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio, che opera in voi credenti.



1.1.1 - Ma anche principio da tenere sempre presente nella presentazione di ogni cosa in un tempo di confusione



cfr. C.S. Lewis, Il cristianesimo così com’è, Adelphi







1.2 - Differenza fra ecumenismo e dialogo inter-religioso



Sura IV («Sura delle donne»), 157

Nel contesto di rimproveri fatti agli ebrei di Medina, essi sono accusati per aver detto: «"Abbiamo ucciso il Messia, Gesù figlio di Maria, l'Apostolo di Dio!", mentre non l'hanno ucciso né crocifisso, ma soltanto sembrò loro [di averlo ucciso]. In verità, coloro che si oppongono a [Gesù], sono certamente in un dubbio a suo riguardo. Essi non hanno alcuna conoscenza di [Gesù]; non seguono che congetture e non hanno ucciso [Gesù] con certezza».

- rifiuto del Battesimo da parte di gruppi che sono solo apparentemente cristiani (es. Testimoni di Geova)







1.3 - I 3 grandi punti fermi di ogni ecumenismo e di ogni fede cristiana: Gesù uomo e Dio, la Trinità, il battesimo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito



- dalla Postfazione di M. Fédou a F. Varillon, Un compendio della fede cattolica, EDB, Bologna, 2007, p. 97
Padre Varillon ha detto e ridetto l’importanza centrale di ciò che chiamava «l’essenziale dell’essenziale», ossia delle «tre verità fondamentali e congiunte» che sono «la Trinità, l’Incarnazione, la nostra divinizzazione»:
«[...] La divinizzazione della persona non è possibile che tramite l’Incarnazione, e l’Incarnazione non è possibile se Dio non è Trinità. Tutto il resto, in un modo o nell’altro, deve ricondursi a questo. Dunque che si parli di peccato o di virtù cristiane, che si commenti questa o quella scena dell’Evangelo, questo essenziale è sempre sullo sfondo» (F. Varillon, Bellezza del mondo e sofferenza umana. Colloqui con Charles Ehlinger, Bayard, Paris, p. 115)







1.4 - La realtà della chiesa e dei sacramenti



Massimamente con gli ortodossi

Riconoscere la verità del Battesimo

Ma anche con i luterani: Lutero credeva nella presenza reale di Gesù nell’Eucarestia

- da A. Sabetta, Sacramento e parola in Lutero, apparso in “Rassegna di teologia” 51 (2010), pp. 583-606
La Confessio augustana (CA) definisce la chiesa «l'assemblea dei santi nella quale si insegna il Vangelo nella sua purezza e si amministrano correttamente i sacramenti» (VII), Parola e Sacramenti che, «in virtù della disposizione e dell'ordine di Cristo, sono efficaci anche se sono amministrati da malvagi» (VIII). [...]
La questione dei sacramenti ha focalizzato ed è rimasta centrale nella teologia di Lutero, se si considera che tutto il decennio 1519-1528 è fortemente attraversato da una riflessione sulla tematica sacramentale, volta non solo a determinare la natura del sacramento e i suoi elementi costitutivi, ma anche ad analizzare i due sacramenti della fede, cioè il battesimo e la santa cena. [...]

- l’esemplificazione iconografica di Caravaggio nel Martirio di San Matteo

Olio su tela (323x343) 1600/1601 – Cappella Contarelli
– Chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma.


La scena si sviluppa concentricamente intorno alla figura di un carnefice nell'atto di colpire il futuro martire. È rappresentata all'interno di una struttura architettonica che ricorda quella di una chiesa (ciò si deduce dalla presenza di un altare con la croce e di un fonte battesimale) e quindi si atterrebbe alla Legenda Aurea per cui S. Matteo sarebbe stato assassinato dopo una messa. I personaggi sono stati disposti su una sorta di piattaforma inclinata, alla maniera teatrale, che ha l'effetto di avvicinarli allo spettatore e aumentare il pathos della raffigurazione. Al centro del quadro vi è San Matteo che giace a terra dopo essere stato colpito dal suo carnefice, il personaggio seminudo (probabilmente il falso neofita) che gli blocca il braccio; il corpo di quest'ultimo è tornito, a ricordo dell'Adamo della Sistina di Michelangelo.
La posizione delle braccia di San Matteo, aperte, richiama la croce, tuttavia egli non è illuminato totalmente quanto lo è il carnefice, perché egli è già in Grazia Divina. Il vero protagonista-peccatore è dunque il sicario, è su di lui che deve agire la luce salvifica di Dio. In alto a destra un angelo di ispirazione tardo-manierista, elegantissimo e raffinato anche nella postura sinuosa, si sporge da una nuvola per tendere a San Matteo la palma del martirio. Attorno, in tutto lo spazio figurativo disponibile, Caravaggio inserisce i fedeli presenti alla messa: due personaggi di fronte, uno volto in avanti e l'altro presentato con uno scorcio ardito, un bimbo che scappa, altri uomini scomposti in gesti e posture dalle quali traspare tutto l'orrore e la tensione per essere testimoni di una scena simile. È da notare un autoritratto di Caravaggio in fondo a sinistra, nel personaggio che osserva. Come spesso è accaduto anche in quest'opera, nella quale Caravaggio decide di rappresentare il martirio del santo come se si trattasse di un assassinio brutale lungo una strada, vi è la testimonianza della sua inventiva per l'aver trasferito un episodio della storia sacra nella vita di ogni giorno, per conferire realtà, veridicità e una forte componente emotiva

- e di Michelangelo e Caravaggio nella Cappella Paolina e nella Cappella Cerasi [il Martirio di San Pietro ad opera di Michelangelo e Caravaggio]



Ultimo affresco di Michelangelo (625x662) 1545/1550
- Cappella Paolina in Vaticano.


Nella tradizione iconografica del tempo, la scena del martirio di Pietro si atteneva strettamente alla narrazione degli eventi: al centro del quadro veniva rappresentata la croce piantata a rovescio con il corpo di Pietro a testa in giù; spesso vi erano elementi che rimandavano a Roma, luogo dell'avvenimento, come la piramide Cestia o l'obelisco Vaticano. Michelangelo rompe radicalmente con questa tradizione: la croce non è ancora stata eretta, non vi sono segni che possono dare all'evento una collocazione geografica. Inoltre, l'artista rende la scena ancora più dinamica raffigurando la croce che attraversa, in posizione fortemente diagonale, tutto il campo figurativo. Pietro, disteso sulla croce, solleva vigorosamente la testa e rivolge lo sguardo all'osservatore: gli guarda infatti verso la porta della cappella, da dove deve entrare il Papa, e sembra quasi dirgli di ricordarsi del suo ruolo, quello di suo successore. Il dipinto non rappresenta una vera crocifissione, ma un offertorio, poiché san Pietro si offre spontaneamente, in quanto Michelangelo non rappresentò le mani e i piedi trapassati dei chiodi: il recente restauro ha dimostrato che sono stati aggiunti successivamente. Inoltre Pietro non presenta ferite sul corpo. L'opera raffigura il momento immediatamente precedente il martirio di san Pietro, quando già collocato a testa in giù e inchiodato sulla croce, sta per essere issato. L'episodio non è menzionato negli Atti degli Apostoli, ma deriva dalla Leggenda Aurea. In quel momento il santo gira la testa verso l'alto, in un ultimo commovente gesto di vita rivolto allo spettatore.
A differenza della Conversione, nella Crocifissione è del tutto assente il divino, con Pietro che appare isolato e solo davanti al dramma della tortura. A questa sensazione di smarrimento contribuiscono anche il paesaggio desolato, l'orizzonte alto, il cielo plumbeo. Le linee di forza della composizione guidano l'occhio dello spettatore sulla testa di Pietro, con uno schema innovativo che evitava la tradizionale crocifissione a testa in giù, in cui era difficile mantenere l'attenzione sul protagonista.
Giotto ad esempio, nel Polittico Stefaneschi, aveva risolto il problema alzando la croce fino a mettere il volto dell'apostolo all'altezza di quello degli astanti. Michelangelo invece, scegliendo il momento precedente alla crocifissione vera e propria, poté usare una disposizione trasversale, aiutato anche dalla pendenza del suolo, dando massimo risalto al protagonista.
Importante è notare come la composizione non sia più guidata dai principi della prospettiva rinascimentale, ma le figure appaiano piuttosto giustapposte e spinte in avanti senza una vera e propria profondità, quasi sospese sul nulla, come le figure che emergono a metà della cornice sulla destra. Lo spettatore si trova così al centro di molteplici punti di fuga come se fosse circondato "dentro" la scena. I colori sono tenui e stemperati, rivelati appieno nell'ultimo restauro. Alcune figure massicce e compatte rimandano ai maestri di Michelangelo, come Masaccio, soprattutto nell'uomo accovacciato che scava la buca per la base della croce. Della Crocifissione di san Pietro esiste un cartone conservato al museo nazionale di Capodimonte a Napoli, composto da diciannove fogli incollati su tela (263x156), in più punti danneggiato e integrato posteriormente.



Tela di carattere volutamente antieroico e antiaulico, in essa seguendo Roberto Longhi i gesti dei "seventi", sono più da "operai" indaffarati, che non di carnefici, tanto da dare alla scena un senso di incolpevole evidenza, dove ognuno attende al suo compito. Nel quadro la luce investe la croce e il santo, entrambi simbolo della fondazione e della costruzione della Chiesa, attraverso il martirio del Primo Pontefice, eletto da Gesù Cristo. La luce altresì investe i carnefici, qui raffigurati non come aguzzini che agiscono in maniera gratuitamente brutale, ma come uomini semplici, costretti ad un lavoro faticoso.


Caravaggio - olio su tela (230x175, 1600/1601 - Cappella Cerasi
– Chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma.


Spettacolare è, oltre all'illuminazione, la resa dei particolari: le venature del legno della croce, il piede nero dell'aguzzino chino, le rughe sulla fronte dell'aguzzino di sinistra, il riflesso della luce sulle unghie del Santo e dell'aguzzino che tende la corda.
Il quadro che vediamo è una seconda versione, che Caravaggio decise di realizzare su tela, dopo che la le dimensioni della Cappella Cerasi furono ridotte rendendo la prima versione su pioppo sovradimensionata. A differenza della Conversione, la prima versione della Crocifissione non ci è pervenuta. San Pietro si fa crocifiggere a testa in giù per umiltà nei confronti di Cristo. Tutte le figure concorrono a formare una x con le assi della croce e con i corpi degli aguzzini, dunque anche questi ultimi sono accomunati col santo dal senso della fatica.

Lo sfondo cupo contribuisce a far risaltare le figure mettendo in evidenza la tensione drammatica dei corpi che balzano verso l'osservatore. La composizione è estremamente dinamica e realistica e vi è una solida definizione dei volumi. La presenza di alcune parti della composizione che vengono "tagliate" (si notino, ad esempio, il piede sinistro dell'aguzzino rappresentato nella porzione inferiore della tela, oppure la parte terminale della croce, in corrispondenza dei piedi del santo) permette di dilatare idealmente lo spazio rappresentato, che prosegue oltre la tela stessa. Da notare che San Pietro alza il capo e rivolge lo sguardo verso l’altare della Cappella e non, come si riteneva, verso l’osservatore (Andrea Lonardo).

- e del “teatro” barocco: il baldacchino del Bernini

Il Baldacchino di San Pietro è un monumentale impianto architettonico barocco all'interno della basilica di San Pietro in Vaticano, ideato nel XVII secolo per segnare il luogo del sepolcro del santo, inserendosi sullo spazio semicircolare della confessione. Il baldacchino è alto 28,5 m. Fu realizzato da Gian Lorenzo Bernini tra il luglio 1624 e il 1633. L'incarico di realizzarlo fu la prima grande commissione pubblica che l'artista ottenne in seguito all'elezione di papa Urbano VIII nel 1623; l'opera venne inaugurata il 28 giugno 1633 dallo stesso papa.
Quella del Baldacchino è la prima impresa di Bernini in cui si fondono scultura e architettura a tal punto da creare una allegorica immagine di un oggetto, un catafalco processionale di grandezza monumentale, molto più grande del solito, e che sostituisse il consueto ciborio inserendosi nello spazio in maniera innovativa e scenografica, aprendo nuove prospettive all'architettura barocca.
Quest'impresa è il risultato di un lavoro di cantiere collettivo che vide coinvolti Francesco Borromini, suo assistente per la parte architettonica, il quale partecipò alla progettazione, e altri artisti celebri come gli scultori Stefano Maderno, Francois Duquesnoy, Andrea Bolgi, Giuliano Finelli, Luigi Bernini (fratello di Gian Lorenzo) e una schiera di fonditori e scalpellini.
Per molto tempo fu diffusa la credenza che per realizzare l'opera vennero asportati e fusi gli antichi bronzi del Pantheon, consistenti nelle massicce travature del pronao. La scellerata decisione ispirò la celebre pasquinata Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini ("ciò che non fecero i barbari, fecero i Barberini") con la quale si voleva sottolineare la smisurata ambizione della famiglia del pontefice che, pur di autocelebrarsi con monumenti spettacolari, spendeva cifre enormi e neppure si fermava di fronte al danneggiamento di uno dei monumenti più importanti dell'antica Roma. L'autore della celebre "pasquinata" è stato identificato dal critico d'arte de L'Osservatore Romano, Sandro Barbagallo, in monsignor Carlo Castelli, ambasciatore del Duca di Mantova.
A certificare l'identificazione di Sandro Barbagallo è il diario dello stesso Urbano VIII, conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana con il nome di Codice Urbinate 1647. A pagina 576 è così scritto: Dalle lingue malediche e detrattori di fama contaminata fu decantato lo spoglio d' un ornamento antico, benché ciò sia stato vero di haver levato quel Metallo, ma estimato ancor bene e posto, per essere stata ornata la Chiesa de' SS. Apostoli, e si è visto a tempi nostri sopra di questi Critici la maledizione di Dio, perché l'Agente del Duca di Mantova che fu Detrattore di aver affissi i Cartelli di quell'infame Pasquinata da famiglia Barbera ad Barberina, egli morse d'infermità e nel letto chiese perdono a Papa Urbano Ottavo.
In realtà i bronzi del Pantheon servirono per la realizzazione di 80 cannoni di Castel Sant'Angelo. Secondo la storica dell'arte americana Louise Rice, che insegna alla New York University le cose andarono diversamente, ma questa versione dei fatti fu appositamente confezionata dalla propaganda papale. Si trattò, insomma, di una falsa notizia costruita ad arte.»
« Sorgono scintillando per l'ombra le quattro colonne che nel pagano bronzo torse il Bernini a spire »
(Gabriele D'Annunzio, In San Pietro, da Elegie romane)




Le caratteristiche colonne tortili, alte 11 metri, sono composte di tre rocchi ciascuna, a cui si aggiungono i capitelli compositi e gli alti basamenti in pietra, su cui sono raffigurate le fasi di un parto tramite le espressioni di un volto femminile, all'interno dello stemma papale di Papa Urbano VIII Barberini. Le colonne sono congiunte alla trabeazione attraverso quattro dadi di matrice brunelleschiana, che conferiscono al monumentale baldacchino un aspetto più slanciato, ispirando un senso di grande leggerezza. Sono inoltre tortili, ad imitazione e richiamo della pergula della vecchia basilica di San Pietro, a loro volta ispirate al Tempio di Salomone. Sono attraversate da elementi naturalistici bronzei come tralci di lauro (che alludono alla passione di papa Urbano VIII per la poesia), lucertole (simbolo di rinascita e di ricerca di Dio) ed api, che fanno parte dello stemma della famiglia papale (quella dei Barberini) e che si trovano anche nei basamenti marmorei. Questi quattro pilastri sono collegati da una trabeazione concava tipica del Barocco. L'elica scultorea formata dalle colonne tortili suggerisce un movimento ascendente che va dal basso verso l'alto in direzione della cupola di Michelangelo.


Per la parte superiore fu adottata la struttura a dorso di delfino, al fine di alleggerirne l'aspetto, e si aggiunsero statue (disegnate da Francesco Borromini) di angeli e putti che reggono festoni, mentre i drappi sotto la trabeazione sono in movimento come mossi dal vento. A sottolineare la commissione di un papa afferente alla famiglia Barberini, il Bernini pose su uno dei lati del baldacchino un putto che alza al cielo un enorme corpo d'ape rovesciato; in cima fu collocato il globo con la croce; le statue sono animate in senso barocco e sono impreziosite cromaticamente, come il resto dell'opera, dall'uso della doratura. È possibile ammirare delle copie del Baldacchino (simili, ma di dimensioni minori) presso la Cattedrale di San Feliciano di Foligno e presso la Cattedrale di San Vigilio di Trento.







1.5 - L’unica confessione dei martiri



- chi non ama il nemico e non perdona chi lo uccide non è un martire

Papa Francesco, discorso al movimento del Rinnovamento nello Spirito il 3/7/2015
«Noi sappiamo che quando quelli che odiano Gesù Cristo uccidono un cristiano, prima di ucciderlo, non gli domandano: “Ma tu sei luterano, tu sei ortodosso, tu sei evangelico, tu sei battista, tu sei metodista?”. Tu sei cristiano! E tagliano la testa. Questi non confondono, sanno che c’è una radice lì, che dà vita a tutti noi e che si chiama Gesù Cristo, e che c’è lo Spirito santo che ci porta verso l’unità! Quelli che odiano Gesù Cristo guidati dal maligno non sbagliano, sanno e per questo uccidono senza fare domande».







1.6 - La testimonianza comune



(a) di Dio

Papa Francesco: la fede non è una sub-cultura

- da Benedetto XVI nella Celebrazione ecumenica nella Chiesa dell'ex-Convento degli Agostiniani di Erfurt, del 23 settembre 2011
Testimoniare questo Dio vivente è il nostro comune compito nel momento attuale.
L’uomo ha bisogno di Dio, oppure le cose vanno abbastanza bene anche senza di Lui?

- dal discorso tenuto da Benedetto XVI nell’incontro con i rappresentanti del consiglio della "Chiesa Evangelica in Germania" nella Sala del Capitolo dell'ex-Convento degli Agostiniani di Erfurt, il 23 settembre 2011
In questo cammino non gli interessava questo o quello. Ciò che non gli dava pace era la questione su Dio, che fu la passione profonda e la molla della sua vita e dell’intero suo cammino. “Come posso avere un Dio misericordioso?”: questa domanda gli penetrava nel cuore e stava dietro ogni sua ricerca teologica e ogni lotta interiore[...] La maggior parte della gente, anche dei cristiani, oggi dà per scontato che Dio, in ultima analisi, non si interessa dei nostri peccati e delle nostre virtù. [...] Se si crede ancora in un al di là e in un giudizio di Dio, allora quasi tutti presupponiamo in pratica che Dio debba essere generoso e, alla fine, nella sua misericordia, ignorerà le nostre piccole mancanze. La questione non ci preoccupa più. Ma sono veramente così piccole le nostre mancanze?

papa Francesco nell’Incontro per la libertà religiosa con la comunità ispanica e altri immigrati presso l’Independence Mall, a Philadelphia il 26/9/2015
«La libertà religiosa, per sua natura, trascende i luoghi di culto, perché il fatto religioso, la dimensione religiosa, non è una subcultura, è parte della cultura di qualunque popolo e qualunque nazione».

Papa Francesco, Evangelii Gaudium 200
- dal momento che questa Esortazione è rivolta ai membri della Chiesa Cattolica, desidero affermare con dolore che la peggior discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale. L’immensa maggioranza dei poveri possiede una speciale apertura alla fede; hanno bisogno di Dio e non possiamo tralasciare di offrire loro la sua amicizia, la sua benedizione, la sua Parola, la celebrazione dei Sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e di maturazione nella fede. L’opzione preferenziale per i poveri deve tradursi principalmente in un’attenzione religiosa privilegiata e prioritaria.

(b) dell’uomo e della società

Paolo VI all’ONU il 4 ottobre 1965
Questo incontro, voi tutti lo comprendete, segna un momento semplice e grande. Semplice, perché voi avete davanti un uomo come voi; egli è vostro fratello, e fra voi, rappresentanti di Stati sovrani, uno dei più piccoli, rivestito lui pure, se così vi piace considerarci, d'una minuscola, quasi simbolica sovranità temporale, quanta gli basta per essere libero di esercitare la sua missione spirituale, e per assicurare chiunque tratta con lui, che egli è indipendente da ogni sovranità di questo mondo. Egli non ha alcuna potenza temporale, né alcuna ambizione di competere con voi [...] Ma Noi dicevamo, e tutti lo avvertite, che questo momento è anche grande. Grande per Noi, grande per voi. Per Noi, anzitutto. Oh! voi sapete chi siamo; e, qualunque sia l'opinione che voi avete sul Pontefice di Roma, voi conoscete la Nostra missione; siamo portatori d'un messaggio per tutta l'umanità; e lo siamo non solo a Nostro nome personale e dell'intera famiglia cattolica, ma lo siamo pure di quei Fratelli cristiani, che condividono i sentimenti da Noi qui espressi, e specialmente di quelli da cui abbiamo avuto esplicito incarico d'essere anche loro interpreti. Noi siamo come il messaggero che, dopo lungo cammino, arriva a recapitare la lettera che gli è stata affidata [...]
1. Il Nostro messaggio vuol essere, in primo luogo, una ratifica morale e solenne di questa altissima Istituzione. [...] Dicendo questo, Noi sentiamo di fare Nostra la voce dei morti e dei vivi; dei morti, caduti nelle tremende guerre passate sognando la concordia e la pace del mondo; dei vivi, che a quelle hanno sopravvissuto portando nei cuori la condanna per coloro che tentassero rinnovarle; e di altri vivi ancora, che avanzano nuovi e fidenti, i giovani delle presenti generazioni, che sognano a buon diritto una migliore umanità. E facciamo Nostra la voce dei poveri, dei diseredati, dei sofferenti, degli anelanti alla giustizia, alla dignità della vita, alla libertà, al benessere e al progresso. I popoli considerano le Nazioni Unite come il palladio della concordia e della pace; Noi osiamo, col Nostro, portare qua il loro tributo di onore e di speranza. Ecco perché questo momento è grande anche per voi.

papa Francesco tenuto il 31/10/2016 nell’evento ecumenico nella Malmö Arena, in occasione della Commemorazione Comune luterano-cattolica della Riforma (31 ottobre – 1 novembre 2016)
Grazie a questo nuovo clima di comprensione, oggi Caritas Internationalis e Lutheran World Federation World Service firmeranno una dichiarazione comune di accordi, allo scopo di sviluppare e consolidare una cultura di collaborazione per la promozione della dignità umana e della giustizia sociale. Saluto cordialmente i membri di entrambe le organizzazioni che, in un mondo frammentato da guerre e conflitti, sono state e sono un esempio luminoso di dedizione e servizio al prossimo. Li esorto a continuare sulla strada della cooperazione. [...] È una buona notizia sapere che i cristiani si uniscono per dar vita a processi comunitari e sociali di comune interesse.







1.7 - Una visione sintetica della fede



I 4 pilastri (cfr. i 2 Catechismi di Lutero, il Maggiore e il Minore, il Catechismo di Calvino e il Catechismo del Concilio di Trento):

* la fede professata - credere nelle regole della Chiesa.

* la fede celebrata - credere che Gesù viene a noi attraverso i sacramenti.

* la fede vissuta - vivere nell’amore, quindi nella carità e rispettare i 10 comandamenti.

* la fede pregata – nella preghiera il cristiano chiama Dio “Padre”.

Le tre virtù: Fede, Speranza e Carità

Raffaello:Fede, Speranza e Carità – Pinacoteca vaticana a Roma

Si tratta di tre tavolette dipinte ad olio, di dimensioni 16x44 cm ciascuna e databili al 1507, che fanno parte della smembrata Pala Baglioni (la parte centrale è conservata alla galleria Borghese.
La pala d'altare, che si trovava nella chiesa di San Francesco al Prato, era stata commissionata da Atalanta Baglioni, in memoria del figlio Grifonetto, assassinato per vendetta durante alcune lotte intestine alla famiglia per il dominio di Perugia nel 1500.
Le tavolette della predella, a differenza della pala centrale con la Deposizione, non vennero sottratte per il cardinale Scipione Borghese, ma anzi furono i francesi a portarle via dopo la soppressione dell'istituto religioso nel 1797. Nel 1816 si riuscì a farle ritornare in Italia al legittimo possessore, in questo caso il papa, quale capo della Chiesa, ma, come molte altre opere umbre e marchigiane di pregio, Pio VII decise di tenerle nella Pinacoteca vaticana piuttosto che rimandarle nei luoghi di origine. Tutte e tre le tavolette sono concordemente riferite al Sanzio.
Le tre virtù teologali sono rappresentata a monocromo entro tondi tra angioletti o putti reggitarga. Il medaglione centrale è pensato come una nicchia, in cui le figurette proiettano l’ombra.

La Fede è affiancata da due putti a tutta figura con targhe che recano le iscrizioni "C P X" (Christòs in greco) e "INRI". Essi godono di quella dolcezza dei fanciulli di Raffaello. La Fede mostra il tipico attributo del calice e l'ostia, che mostra compiendo una torsione verso sinistra, che ricorda la collocazione originaria a destra. Ha un'acconciatura elaborata e un vestito all'antica, che crea pieghe che accentuano il rilievo scultoreo della figura.

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La Speranza è affiancata da due angioletti a tutta figura, dalla dolcezza tipica dei putti di Raffaello, è ritratta con le mani giunte in preghiera e lo sguardo tipicamente rivolto al cielo. La figura è girata a destra, poiché originariamente era collocata a sinistra. Elaborata è l'acconciatura e l'abbigliamento all'antica, con un velo mosso dal vento che dà un senso dinamico alla rappresentazione.

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La Carità è affiancata da due putti a tutta figura con attributi a essa consoni: il fuoco, entro una sorta di braciere tenuto sulle spalle da quello di sinistra, e un copioso grappolo d'uva rovesciato in dono da un canestro da quello di destra. La Carità è forse la più interessante delle tre Virtù Baglioni, poiché mostra una donna che allatta numerosi figli, nella cui composizione generale si scorgono evidenti echi del tema della Madonna col bambino così tipico della produzione raffaellesca. In particolare la figura femminile è seduta di profilo e ruota verso destra tenendo un fanciullo, anticipando la felice composizione della Madonna della Seggiola.

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La fede cristiana non è complicata







2 - Le differenze possono tranquillamente essere dette nell’amore, poiché la libertà della discussione e la ricerca della verità appartengono intrinsecamente al cristianesimo







2.1 - Non le questioni periferiche delle indulgenze



- una storia più precisa, non solo su dettagli come le tesi e le indulgenze

- cfr. L'affissione delle 95 Tesi di Lutero: storia o leggenda?, di Giancarlo Pani S.J.

R. Sabene, Fede, accoglienza e indulgenze nella Fabbrica di San Pietro in Vaticano, in A. Di Sante – S. Turriziani (a cura di), Quando la Fabbrica costruì San Pietro. Un cantiere di lavoro, di pietà cristiana e di umanità. XVI-XIX secolo, pp. 43-61

L. Palermo, Le finanze pontificie all’epoca di Leone X, in Leone X. Finanza, mecenatismo, cultura, I, Roma, 2016, pp. 45-58

- cfr. anche il pellegrinaggio di Lutero a Roma







2.2 - Nemmeno di per sé la questione della Scrittura



Non era assente la Parola di Dio, bensì la lettura personale della Scrittura

- da C. M. Martini, La Sacra Scrittura nutrimento e regola della predicazione e della religione, (commento al capitolo VI della Dei Verbum), in La Bibbia nella Chiesa dopo la «Dei Verbum». Studi sulla costituzione conciliare, Paoline, Roma, 1969, pp. 157-172 (in particolare 165-172) In Germania, tra il 1450 e il 1500 furono stampate oltre 25 edizioni della Bibbia latina e 15 in lingua volgare. In Svizzera, nella sola Basilea, si produssero 18 edizioni della Bibbia tra il 1450 e il 1500. In Italia nello stesso periodo erano uscite 27 edizioni, di cui 22 nella sola Venezia e una rispettivamente a Roma, Napoli, Brescia, Piacenza e Vicenza. Di queste 27 edizioni, 10 erano in volgare, tutte edite a Venezia: 9 edizioni della versione del Malermi, e una della versione anonima detta Bibbia d'agosto, perché pubblicata il 1° agosto 1471. Non si può dunque sottoscrivere la frase di Lutero, pronunciata in uno dei suoi discorsi conviviali (Tischreden), il 22 febbraio 1538, secondo cui prima della sua riforma la Bibbia era «a tutti sconosciuta». «A vent'anni - dice Lutero - io non avevo ancora veduto una Bibbia». L'espressione è forse un po' esagerata, e certamente non indicativa della reale situazione di allora, se si pensa che del solo periodo 1459-1500 ci sono state conservate 5400 Bibbie stampate, che non sono se non una piccola parte delle decine di migliaia allora in circolazione.

- da La lettura della Bibbia nella chiesa, tra protestantesimo e cattolicesimo. Appunti (almeno in parte) controcorrente, di Andrea Lonardo.
Il passaggio in area protestante ad un più accorto ed addirittura sospettoso utilizzo della Scrittura nella formazione dei laici è presentato in dettaglio da Jean-François Gilmont, Riforma protestante e lettura, in Cavallo Guglielmo - Chartier Roger, Storia della lettura nel mondo occidentale, Laterza, Roma - Bari, 2009, pp. 243-275 e da Susanna Peyronel Rambaldi, Educazione evangelica e catechistica: da Erasmo al gesuita Antonio Possevino, in Ragione e “civilitas”. Figure del vivere associato nella cultura del ’500 europeo, Bigalli Davide (a cura di), Franco Angeli, Milano, 1986, pp. 73-92.
Gilmont ricorda come Lutero, fin dal 1520, in Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, propendesse per un insegnamento della fede semplificato e controllato dalla nuova autorità:
«Quanto ai libri teologici, bisognerebbe anche ridurne il numero e scegliere i migliori. Non ci sarebbe neppure bisogno di leggere molto, bensì di leggere buone cose e di leggerle spesso, per poco che ciò sia. Ecco ciò che rende dotti nella Sacra Scrittura e pii al tempo stesso» (p. 251).
Ma soprattutto «dopo la Guerra dei Contadini e sotto l'effetto del proliferare di interpretazioni eterodosse della Scrittura, il suo discorso si evolve. Egli insiste a proposito del controllo della Chiesa sull'accesso alla Bibbia. La Parola racchiusa nella Bibbia resta lettera morta, se non è trasmessa dalla predicazione. “Il Regno di Cristo - afferma in una predica del 1534 - è fondato sulla Parola, che non si può afferrare né comprendere senza i due organi, le orecchie e la lingua”. Nel 1529, dopo aver composto i suoi due catechismi, egli insiste perché questo manuale sia messo nelle mani di tutti: “Il catechismo è la Bibbia del laico; contiene tutto ciò che un cristiano deve conoscere della dottrina cristiana”» (pp. 251-252).
Una analoga evoluzione si può riscontrare in Melantone: «Nella Prefazione ai Loci communes del 1521, egli presenta il proprio libro come una modesta introduzione destinata a scomparire di fronte alla lettura della Bibbia; auspica ardentemente che “tutti i Cristiani si applichino in assoluta libertà alla sola lettura delle Scritture Sante”. Al contrario, nella Prefazione del 1543, egli insiste sulla necessità di questi ministri del Vangelo, che Dio desidera far preparare nelle scuole. Sono loro che Egli ha voluto come guardiani dei Libri dei Profeti e degli Apostoli e dei dogmi autentici della Chiesa» (p. 252).
Anche nella nuova Inghilterra anglicana la direzione è la medesima:
«A lungo Enrico VIII interdice ogni diffusione della Bibbia in inglese. Infine, nel 1543, cede alle pressioni della propria cerchia. Ma l'autorizzazione a stampare la Bibbia in inglese è corredata da restrizioni significative. Egli distingue tre categorie di persone e di letture. Nobili e gentiluomini possono non solo leggere, ma anche far leggere a voce alta la Scrittura in inglese per se stessi e per tutti coloro che abitano sotto il loro tetto. Basta la presenza di un membro della nobiltà per autorizzare il libero accesso alla Scrittura. All'altro estremo della scala sociale, la lettura della Bibbia in inglese è totalmente interdetta a “donne, artigiani, apprendisti e dipendenti al servizio di persone di rango pari o inferiore a quello di piccoli proprietari, agricoltori e manovali”. Quanti si situano fra queste due categorie - di fatto i borghesi come le donne nobili, “possono leggere, per se stessi e per altri, tutti i testi della Bibbia e del Nuovo Testamento”. Questa categoria intermedia ha dunque la competenza bastante a non lasciarsi fuorviare, ma manca dell'autorità per imporsi sul proprio ambiente» (p. 253).
Nella Svizzera calvinista si incontrano analoghe cautele. Pesò evidentemente in tutti quei padri riformatori che spinsero verso una direzione istituzionale i nuovi fermenti il giudizio negativo sull’utilizzo della Scrittura fatto dai capi della rivolta dei contadini, così come da altre letture del testo sacro dissonanti con quella proposta dalle correnti ufficiali della riforma. Si ebbe insomma cura di vigilare affinché una “corretta” interpretazione della Scrittura non portasse al sovvertimento dell’autorità politica e della nuova autorità religiosa. Gilmont ricorda che solo nelle frange più estremiste della riforma, in effetti, si mantenne la libera interpretazione della Scrittura. Ma, anche qui, egli sfuma poi subito il giudizio, attestando che presto si giunse anche in quelle ad una nuova ortodossia che restringeva le letture possibili per uniformarsi a quella dei leaders dei gruppi stessi: «A Zurigo, gli anabattisti restano fedeli alle prime prese di posizione di Zwingli e aderiscono ad un'interpretazione radicale della Scrittura: “Dopo aver preso anche noi fra le mani la Scrittura e averla interrogata su tutti i punti possibili, siamo divenuti più istruiti e abbiamo scoperto gli errori enormi e vergognosi commessi dai pastori”. Con sfumature diverse, gli spiritualisti adottano posizioni vicine, rifiutando ogni intervento autoritario nel contatto con i libri sacri. La loro posizione è strettamente connessa alla convinzione della priorità dello Spirito sul testo. Nel Manifesto di Praga, del 1521, Thomas Münzer squalifica i preti che propongono una Scrittura “celata con fare sornione nella Bibbia, con la furberia dei briganti e la crudeltà degli assassini”. Solo gli eletti sono beneficiari della Parola vivente: “Quando il seme cade sul campo fertile, vale a dire nei cuori riempiti del timor di Dio, lì si trovano la carta e la pergamena su cui Dio scrive non con l'inchiostro, ma col suo dito vivente la vera Scrittura santa, di cui la Bibbia esteriore è autentica testimonianza. Münzer però sa di vivere in una società poco adatta alla lettura individuale. Così egli auspica, in testa alla sua Predica ai prìncipi, del 1524, “che i servitori di Dio, zelanti e infaticabili, diffondano quotidianamente la Bibbia attraverso il canto, la lettura e la predicazione”. Nella stessa logica, egli desidera una liturgia che si svolga in una lingua compresa dal popolo. E si augura che la Bibbia sia letta ad alta voce di fronte al popolo, per consentirgli di appropriarsene. È vero che questo ideale fu disatteso e che Münzer sostituì ben presto la propria predicazione al dettato della Bibbia» (pp. 254-255).
Recentemente è stato Luther Blisset, l’autore collettivo di Q (Einaudi, Torino, 1999), a ricordare in forma romanzata come tutti i rami della riforma si siano presto irrigiditi a propugnare la loro visione dell’ortodossia. Nel romanzo storico Q i gruppi minoritari della riforma divengono alla fin fine ancora più integralisti dei gruppi maggioritari e la narrazione evidenzia non solo le tensioni fra cattolicesimo e mondo protestante, ma anche quella violenta fra luteranesimo e calvinismo da un lato ed i gruppi più rivoluzionari dall’altro.







2.3 - Una modalità di presentare la Parola di Dio secondo i “misteri” di Cristo, cioè secondo le feste dell’anno liturgico



- il Concilio di Trento

Secondo decreto del Concilio stesso Sulla lettura della S. Scrittura e la predicazione
«1. [...] perché non avvenga che il tesoro celeste dei libri sacri, che lo Spirito Santo ha dato agli uomini con somma liberalità, rimanga trascurato, ha stabilito e ordinato che nelle chiese, in cui vi sia una prebenda o una dotazione, o uno stipendio comunque chiamato destinato ai lettori di sacra teologia, i vescovi, gli arcivescovi, i primati e gli altri ordinari locali obblighino, anche con la sottrazione dei frutti relativi, quelli che hanno questa prebenda, dotazione o stipendio, ad esporre e spiegare la Sacra Scrittura personalmente, se sono idonei, altrimenti per mezzo di un sostituto adatto, da scegliersi dai vescovi, dagli arcivescovi, dai primati e dagli altri ordinari stessi. Per il futuro tale prebenda, dotazione o stipendio non dovrà esser conferito se non a persone adatte, che siano capaci di esplicare tale ufficio da se stessi. Ogni provvista fatta altrimenti sia nulla e invalida. [...]»

- Il ciclo della Chiesa Nuova (Santa Maria in Vallicella), ma anche i mosaici di Santa Maria Maggiore, cero pasquale di San Paolo fuori le Mura, gli affreschi di San Giovanni a Porta latina, i mosaici con le storie della vergine di Santa Maria in Trastevere, frammenti di affreschi del cavallini in Santa Cecilia in Trastevere nelle pareti a fianco del Giudizio, gli stucchi di San Giovanni in Laterano, ecc. cc.

- il San Matteo di Caravaggio

San Matteo e l'angelo è il soggetto di un dipinto realizzato nel 1602 dal pittore italiano Caravaggio. È conservato a Roma nella cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi. La prima versione del dipinto, acquistata da Vincenzo Giustiniani, passò ai Musei di Berlino nel 1815 e fu distrutta verso la fine della seconda guerra mondiale nell'incendio della Flakturm Friedrichshain.



Due anni dopo aver dipinto le tele laterali per la cappella Contarelli, Caravaggio fu chiamato a concludere l'opera dipingendo anche la pala centrale raffigurante San Matteo e l'Angelo, da porre sopra l'altare della Cappella Contarelli e che faceva seguito alle due committenze laterali della Vocazione di San Matteo e del Martirio di S. Matteo. La prima versione del S. Matteo e l'Angelo doveva sostituire un gruppo scultoreo di Jacob Cornelisz Cobaert (ca. 1535-1615), che l'artista si trascinò sino a tarda età e che venne rifiutato intorno al 1602 da François Cointrel (italianizzato, Francesco Contarelli) - nipote del defunto cardinale francese Matthieu Cointrel (italianizzato, Matteo Contarelli) – per inadeguatezza Francesco Contarelli si decise, quindi, a dare l'incarico a Caravaggio che doveva presentare la tela per la Pentecoste del 1602.
L'idea di una pala d'altare raffigurante S. Matteo e l'Angelo era già nel programma iniziale voluto dal cardinale Matteo Contarelli intorno al 1560, quando egli era ancora in vita. La pala e la restante decorazione furono dapprima affidate a Girolamo Muziano, il quale però non le eseguì; l'incarico fu quindi affidato a Cavalier d'Arpino il quale, però, eseguì solamente gli affreschi nella volta della cappella; così la Fabbrica di San Pietro, che aveva preso in carico di far eseguire i lavori nella Cappella, per intervento del rappresentante padre Berengherio Gessi diede, forse con la mediazione del cardinale Francesco Maria del Monte, l'incarico a Caravaggio. Nel suo testamento, il cardinal Matteo Contarelli aveva precisato che la pala d'altare doveva essere alta palmi 17 e larga palmi 14 con "San Matteo in sedia con un libro o, volume, come meglio parera, nel quale mostri o di scrivere o voler scrivere il vangelio et a canto a lui l'angelo in piedi maggior del naturale in atto che paia di ragionare o in altra attitudine" .







2.4 - La grande questione della tradizione (cioè della presenza di Dio nella Chiesa, nella Chiesa che dona la Parola agli uomini in ogni epoca)



- Gesù ha voluto la Chiesa, Gesù ha voluto Pietro, Gesù ha voluto la presenza sacramentale in maniera indissolubile da quella scritturistica

U. Betti, La trasmissione della divina rivelazione, in La costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, LDC, Torino-Leumann, 1967, pp. 234-250
A differenza della Scrittura, la predicazione viva traduce in pratica quanto annunzia e ne attualizza, per quanto possibile, la realtà intera. Una cosa, per esempio, è raccontare l’istituzione e la celebrazione dell’eucarestia; altra cosa è celebrarla e parteciparne. Il racconto rimane sul piano storico e nozionale; la celebrazione ne dà esperienza spirituale e conferisce la grazia che salva. La trasmissione della predicazione apostolica al di fuori della Scrittura, come pure tutto ciò che ne è oggetto, si chiama Tradizione. [...]
Ai fini della trasmissione e della conoscenza di tutta la Rivelazione, la Tradizione e la Scrittura, sono tutt’e due necessarie, e quindi né l’una né l’altra è sufficiente da sola. Questo dice che tra di esse esiste un rapporto di mutua interdipendenza, fondato su elementi che ambedue hanno in comune e su elementi propri a ciascuna.

- l’una dona la Parola viva, l’altra è “regola”; Cfr. S. & K. Hahn, Roma dolce casa, Ares, Milano, 2012

- L’aggiunta di San Pietro nella Vocazione di Matteo di Caravaggio [1599/1600] – Cappella Contarelli nella Chiesa di San Luigi dei Francesi



Il dipinto è realizzato su due piani paralleli, quello più alto vuoto, occupato solo dalla finestra, mentre quello in basso raffigura il momento preciso in cui Cristo indicando san Matteo, lo chiama all'apostolato. San Matteo è seduto a un tavolo con un gruppo di persone, vestite come i contemporanei del Caravaggio, come in una scena da osteria.
È la prima grande tela nella quale Caravaggio, per accentuare la tensione drammatica dell'immagine e focalizzare sul gruppo dei protagonisti l'attenzione di chi guarda, ricorre all'espediente di immergere la scena in una fitta penombra tagliata da squarci di luce bianca, che fa emergere visi, mani (per evidenziare e guidare lo sguardo dello spettatore sull'intenso dialogo di gesti ed espressioni) o parti dell'abbigliamento e rende quasi invisibile tutto il resto. La tela, inoltre, è densa di significati allegorici. In primo luogo proprio la luce, grande protagonista della raffigurazione pittorica, assurge a simbolo della Grazia divina (non a caso non proviene dalla finestra dipinta in alto a destra che, anzi, resta del tutto priva di luminosità, ma alle spalle del Cristo), Grazia che investe tutti gli uomini pur lasciandoli liberi di aderire o meno al Mistero della Rivelazione; non bisogna dimenticare, poi, che la chiesa di S. Luigirappresentava la nazione francese, e l'allora Re di Francia, Enrico IV, s'era appena convertito al Cattolicesimo, scegliendo così la Salvezza.

E così, solo alcuni dei personaggi investiti dalla luce (i destinatari della "vocazione" insieme a Matteo il Pubblicano) volgono lo sguardo verso Gesù, mentre gli altri preferiscono restare a capo chino, distratti dalle proprie solite occupazioni. Forse non è casuale che uno dei compagni di Matteo porti gli occhiali, quasi che fosse accecato dal denaro. La luce inoltre ha la funzione di dare direzione di lettura alla scena, che va da destra a sinistra e torna indietro quando incontra l'umanissima espressione sbigottita ed il gesto di San Matteo che punta il dito contro se stesso al fine di ricevere una conferma, come se chiedesse a Cristo e a San Pietro: "State chiamando proprio me?". Altri, tra i quali Sara Magister[1] invece notano come San Matteo sia invece il giovane a capotavola. L'opera prende vita, movimento dalla luce ed i personaggi si muovono sulla tela come attori su un palco grazie ad essa. Il fatto, poi, che essi siano vestiti alla moda dell'epoca del Pittore ed abbiano il viso di modelli scelti tra la gente comune e raffigurati senza alcuna idealizzazione, con il realismo esasperato che ha sempre caratterizzato l'opera di Caravaggio, trasmette la percezione dell'artista dell'attualità della scena (il quale vuole comunicarci che la chiamata di Dio è universale e senza precisa collocazione nel tempo: ognuno di noi sarà chiamato), la sua intima partecipazione all'evento raffigurato, mentre su un piano altro, totalmente metastorico, si pongono giustamente il Cristo e lo stesso Pietro, avvolti in una tunica senza tempo. La gestualità dei personaggi dipinti dal Caravaggio (già di sicuro visti dal pittore nell'Ultima cena di Leonardo Da Vinci) danno un movimento e un coinvolgimento dei personaggi unico nel suo genere e fanno notare come il Merisi sia stato un frequentatore di locande dei "bassi fondi" romani del periodo e sia stato in grado di riprodurre atteggiamenti, espressioni e azioni (come nelle Scene di Genere da lui dipinte) di sicuro appresi da esso nella sua vita. Tale partecipazione viene espressa in modo ancor più efficace, se possibile, nell'altra tela di grandi dimensioni, raffigurante il Martirio del Santo, nella quale da una colonna sulla sinistra sbuca timido e pregno di compassione, volto che non è altro se non l'autoritratto di Caravaggio stesso, che pare riaffermare la propria personale partecipazione all'evento narrato.

Di grande intensità e valenza simbolica, nella Vocazione, è il dialogo dei gesti che si svolge tra Cristo, Pietro e Matteo. Il gesto di Cristo (che altro non è che l'immagine speculare della mano protesa nella famosissima scena della Creazione di Adamo – Cristo è il "nuovo Adamo"! – della Cappella Sistina michelangiolesca, che Caravaggio avrà certo avuto modo di studiare ed apprezzare) viene ripetuto da Pietro, simbolo della Chiesa Cattolica Romana che media tra il mondo divino e quello umano (siamo in periodo di Controriforma) e a sua volta ripetuto da Matteo. È la rappresentazione simbolica della Salvezza, che passa attraverso la ripetizione dei gesti istituiti da Cristo (i sacramenti) e ribaditi, nel tempo, dalla Chiesa. Tuttavia alcuni storici dell'arte hanno notato la stretta analogia del gesto di Cristo del Caravaggio con quello del Masaccio ne "Il Tributo di Pietro", suo capolavoro. Effettivamente come il Cristo del Masaccio sta indicando Pietro dicendogli: "Va' al mare, getta l'amo e il primo pesce che viene prendilo, aprigli la bocca e vi troverai una moneta d'argento." (Vangelo di Matteo 17, 24-27), così il Cristo del Caravaggio indica San Matteo per chiamarlo all'ordine.
Grazie alla radiografia, sappiamo che nella prima versione, non era presente la figura di San Pietro, aggiunta successivamente.



Questa è una delle prime pitture sacre, esposte al pubblico, in cui compaiono notazioni realistiche.

- Qui ancora Paolo e Pietro

Gal 2,14 Quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del Vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?».

Eppure tutti gli apostoli riconoscono il ruolo di Cefa/Pietro

Giovanni che attende ad entrare nel sepolcro e ricorda poi il dialogo con Gesù su Gv e Pt

Così i sinottici

Così Paolo: sia in Atti, sia sempre in Galati

Gal 2,8-9: Colui che aveva agito in Pietro per farne un apostolo dei circoncisi aveva agito anche in me per le genti – e riconoscendo la grazia a me data, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Bàrnaba la destra in segno di comunione, perché noi andassimo tra le genti e loro tra i circoncisi.

1 Cor 15,3-8: A voi ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture
e che fu sepolto
e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture
e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici.
In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti.
Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto.

Anche con turisti e pellegrini protestanti, come con cattolici o atei, si può presentare il legame fra Pietro e Paolo

Cfr. iconografia del loro abbraccio, del loro comune martirio (e sostituzione ai 2 fondatori di Roma, Romolo e Remo): i nuovi fondatori di Roma

Concordia Apostolorum


Rilievo con l'abbraccio tra Pietro e Paolo,
presso il Museo Paleocristiano di Aquileia


[Pietro e Paolo, entrambi discepoli e apostoli di Cristo, eppure così diversi: Pietro un povero pescatore, Paolo un rigoroso intellettuale; Pietro un giudeo palestinese di un oscuro villaggio, Paolo un ebreo della diaspora e cittadino romano; Pietro lento a capire e a operare di conseguenza, Paolo consumato dall’urgenza escatologica… Dice un prefazio gallico del VII secolo: “Pietro ha rinnegato per credere meglio, Paolo è stato accecato per vedere meglio... l’uno apre, l’altro fa entrare: entrambi ricevono il Regno eterno”. Sono stati apostoli con due stili differenti, hanno servito il Signore con modalità diversissime, hanno vissuto la chiesa in un modo a volte dialettico se non contrapposto, ma entrambi hanno cercato di seguire il Signore e la sua volontà e insieme, proprio grazie alle loro diversità, hanno saputo dare un volto alla missione cristiana e un fondamento alla chiesa di Roma che presiede nella carità.
La loro memoria, infatti, si celebra insieme perché è memoria di unità nella diversità, di vita consegnata per amore del Signore, di carità vissuta nell’attesa del ritorno di Cristo. L’iconografia li rappresenta stretti in un abbraccio oppure mentre sostengono l’unica chiesa che insieme hanno contribuito a edificare: una sinfonia che è memoria e profezia dell’unica comunione ecclesiale in cui Pietro deve abbracciare Paolo e Paolo deve abbracciare Pietro.]


Senza Pietro e Paolo Roma non sarebbe ciò che è.

- Giovanni Paolo II, Ut unum sint 95
Sono convinto di avere a questo riguardo una responsabilità particolare, soprattutto nel constatare l'aspirazione ecumenica della maggior parte delle Comunità cristiane e ascoltando la domanda che mi è rivolta di trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all'essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova.

- difficoltà del non accettare più il sola Scriptura da parte protestante







2.5 - L’iconografia dai primi secoli, al II Concilio di Nicea, a Lutero, a Calvino (un’esemplificazione della “tradizione”)



II Concilio di Nicea (787)
«Se qualcuno rifiuta che i racconti evangelici siano rappresentati con disegni, sia anatema. Se qualcuno non saluta queste (immagini), (fatte) nel nome del Signore e dei suoi santi, sia anatema. Se qualcuno rigetta ogni tradizione ecclesiastica, sia scritta che non scritta, sia anatema».

«Se qualcuno non ammette che Cristo, nostro Dio, possa essere limitato, secondo l'umanità, sia anatema».

Il problema iconoclastico dopo Lutero

- da Olivier Christin, I protestanti e le immagini, in Arti e storia nel Medioevo. IV Il Medioevo al passato e al presente, Einaudi, Torino, 2004, pp. 99-100
La posizione di Lutero riguardo alle immagini si modifica sensibilmente intorno al 1520-22 in parte a causa del conflitto con Carlostadio. La svolta può essere forse individuata, in questo caso, nei sermoni della Quaresima del 1522. Pur mantenendo vivi gli attacchi contro la falsa sicurezza delle buone opere e il lusso inutile, Lutero sottolinea che nessuno, nemmeno il più semplice di spirito, è tanto sciocco da confondere l'immagine con chi essa rappresenta, e prendere per divini dei segni umani. Inoltre, Lutero contesta l'efficacia politica dell'iconoclastia.
L'iconoclastia luterana non esiste in sé. È tutta questione di contesto locale, di rapporti di forze tra il clero, il magistrato del luogo, la popolazione urbana. Non c'è un unico modello di ritiro delle immagini.
In un grande numero di casi, il magistrato cittadino, il Rat, intende conservare il controllo del processo di trasformazione delle chiese. Il fine e la giustificazione di questo atteggiamento sono quelli di evitare tumulti, di mantenere l'ordine, di impedire gli scandali. D'altronde, fu questo uno degli argomenti principali di Lutero nel suo scontro con Carlostadio: le violenze iconoclastiche scandalizzano i semplici, li turbano profondamente, urtando la loro sensibilità. Le violenze impediscono o allontanano il trionfo del Vangelo, più di quanto non lo favoriscano. Inoltre, la confisca o l'eliminazione delle immagini pongono immediatamente problemi giuridici complessi: a chi appartengono realmente questi beni dall'ambiguo statuto?

- da Olivier Christin, I protestanti e le immagini, in Arti e storia nel Medioevo. IV Il Medioevo al passato e al presente, Einaudi, Torino, 2004, pp. 108-109
L'iconoclastia è divenuta endemica nel corso degli anni 1550. Fino dagli anni 1560-61, vale a dire prima delle guerre, assume una dimensione rivoluzionaria, suscita le sommosse che radunano centinaia di partecipanti, tocca pressoché tutte le regioni del regno, specie quelle sudoccidentali. Una marea di pubblicazioni, anonime o no, di libelli, di canzoni, di componimenti poetici giustifica e celebra la distruzione degli idoli. Le prudenze di Calvino sono dimenticate: questi testi violenti e gioiosi invitano i fedeli ad agire, a non perdere tempo, a instaurare al più presto il regno del Vangelo in terra. Un canto anonimo di questi primi anni di guerra civile così chiama alla distruzione immediata delle immagini: «ôte la toile de tes yeux / Et reconnais le Dieu des cieux, / Peuple abruti. Tombe par terre / Tes idoles de bois et de pierre» («strappa il velo dai tuoi occhi / E riconosci il Dio dei cieli, / Popolo abbrutito. Getta a terra / I tuoi idoli di legno e di pietra»). Abbattere gli idoli è dunque il primo passo verso la vera fede, il presupposto indispensabile, la condizione necessaria per riconoscere il vero Dio. Una volta fatto questo, il trionfo della Parola di Dio sarà imminente. [...] [A Lione], da un lato, i soldati protestanti entrano nella chiesa di San Giusto e cominciano subito, secondo un testimone, ad «abbattere, demolire e frantumare tutte le immagini, i reliquiari e gli altari della chiesa». Allo stesso modo, si impadroniscono di «libri e abiti che offrono in strada al dileggio». Altri testimoni confermano che i soldati si sono introdotti nelle case dei canonici e hanno rubato o distrutto ciò che vi hanno trovato. Fanno nelle strade parate e sfilate parodistiche. Dall'altro lato, tuttavia, alcuni gesti si rifanno con tutta evidenza a un rituale più sofisticato. Quella stessa mattina, il pastore Ruffy entra nella cattedrale di San Giovanni e fa cadere a terra il grande crocifisso. Ci salta sopra a piedi giunti sguainando la sua spada; mozza la testa del Cristo e la brandisce in alto gridando: «Ecco la testa dell'idolo». Il pastore ordina quindi di ridurre il resto del corpo in quattro pezzi e si reca alla residenza episcopale con la testa in mano. Infine, qualche giorno più tardi, il barone des Adrets, comandante delle truppe protestanti della regione, giunge a Lione. Molto rapidamente, pone fine a questa prima iconoclastia, indotto a questo da una lettera di Calvino in data 16 maggio 1562. Da quel momento, l'iconoclastia cambia radicalmente. Sono stati stipulati dei contratti tra il barone des Adrets, i suoi rappresentanti o il consolato, e alcuni demolitori privati, pagati per il loro lavoro. Alcuni notai o librai sono incaricati di redigere inventari esatti dei beni sequestrati nelle chiese e di consegnarli alle autorità. Gli iconoclasti privati sono perseguiti dalla giustizia come razziatori.

Cfr. Iconoclasme. Vie et mort de l’image médiévale, Ed. Musées de Strasbourg, Berne, Somogy, 2001 (catalogo di una mostra del 2001)... cfr. anche le tombe, come la tomba di Erasmo da Rotterdam


[L'umanista e teologo olandese Erasmo da Rotterdam (nome latinizzato di Geert Geertsz) nasce a Rotterdam il 27 ottobre 1469. L'anno di nascita potrebbe anche essere il 1466, e la città natale è più probabilmente Gouda.
Firmerà i suoi scritti con lo pseudonimo di Desiderius Erasmus. La sua opera più nota è l'"Elogio della follia". La sua figura è spesso associata a Rotterdam, ma Erasmo vivrà in questa città soltanto la prima infanzia e nel corso della sua vita non vi tornerà più. Figlio illegittimo di un prete, Roger Gerard, la madre Margherita è figlia di un medico. Erasmo rimane orfano nel 1483; i genitori gli permetteranno di ricevere la migliore educazione possibile per l'epoca, frequentando le scuole monastiche di Deventer e s'Hertogenbosch. Viene ordinato prete nel 1492, anche se non sarà mai un attivo sacerdote. Il monachesimo sarebbe anzi stato uno temi principali della sua critica alla Chiesa. Nel 1495 si reca presso l'Università di Parigi per continuare gli studi. Chiede ed ottiene poi di essere dispensato dagli uffici sacri.
A partire dal 1499 viaggia in Francia, Inghilterra e Italia entrando in contatto con i più importanti centri culturali, tenendo lezioni, conferenze, e studiando gli antichi manoscritti. Il periodo trascorso in Inghilterra gli permette di conoscere e stringere amicizie con Enrico VIII, John Colet, Tommaso Moro, John Fisher, Thomas Linacre e William Grocyn. Insegna greco all'Università di Cambridge; anche se aveva la prospettiva di poter insegnare a lungo, Erasmo preferiva la vita dello studioso indipendente: con grande consapevolezza Erasmo eviterà ogni legame formale che avrebbe potuto limitare la sua libertà intellettuale e la sua libertà di espressione. In questo periodo Erasmo tiene corrispondenza con più di cinquecento persone di rilievo del mondo letterario e politico: la sua figura rappresenterà il centro del movimento letterario della sua epoca.
La produzione letteraria inizia piuttosto tardi, soltanto quando finalmente arriva a ritenere di poter padroneggiare con sicurezza il latino. Erasmo da Rotterdam rimarrà per tutta la vita cattolico, tuttavia criticherà duramente gli eccessi della chiesa cattolica rifiutando persino il titolo di cardinale che gli verrà offerto. Nel suo trattato sulla preparazione alla morte chiarisce che la fede in Cristo e non i sacramenti e i rituali della Chiesa sarebbero l'unica garanzia per la vita eterna. Erasmo preparerà una nuova versione greca e latina del Nuovo Testamento.
Erasmo condivide molti punti della critica di Martin Lutero alla Chiesa cattolica. Lo stesso Luteromanifesterà ammirazione per la superiore cultura di Erasmo. Lutero avrebbe sperato in una collaborazione con Erasmo in un'opera che gli sembrava la continuazione della propria. Erasmo però declina l'invito a impegnarsi, adducendo come motivazione la propria volontà di non schierarsi per mantenere la propria posizione di guida di un movimento puramente intellettuale, scopo della propria vita. Erasmo riteneva che soltanto da una posizione neutrale si sarebbe potuto influenzare la riforma della religione. A Lutero tale scelta parve un mero rifiuto ad assumersi le proprie responsabilità.
Mentre il trionfo della riforma luterana conosce il suo apice iniziano anche disordini sociali che Erasmo già temeva: la guerra dei contadini, l'iconoclastia, il radicalismo che sfocerà nei movimenti anabattisti in Germania e Olanda. Erasmo si sentiva felice di esserne rimasto estraneo, tuttavia negli ambienti cattolici veniva accusato di essere il fomentatore di tali discordie. A dimostrazione della sua lontananza dalla riforma, quando Basilea, dove Erasmo risiede, nel 1529 adotta le dottrine riformate, si trasferisce nella vicina città Friburgo. Qui Erasmo continua la sua instancabile attività letteraria terminando l'opera più importante dei suoi ultimi anni l'"Ecclesiaste", nel quale sostiene che la predicazione è l'unico dovere veramente importante della fede cattolica.
Erasmo da Rotterdam muore il 12 luglio 1536 a Basilea dove era tornato per controllare la pubblicazione dell'"Ecclesiaste". Sebbene rimasto sempre cattolico viene sepolto nella cattedrale dedicata al culto luterano. Il 19 gennaio 1543 a Milano i suoi libri verranno bruciati insieme a quelli di Lutero].


- cfr. Martin Lutero e Cranach, suo pittore ufficiale; cfr. la chiesa parrocchiale di Santa Maria di Wittenberg



Lutero, già monaco agostiniano, e la moglie Caterina von Bora, monaca cistercense, ritratti da Lucas Cranach il Vecchio (Kronach 1472 – 1553 Weimar). Amico personale di Lutero e pittore di corte dell’Elettore Palatino Federico III il Saggio, Cranach creò le opere da far circolare (es. polittico di Santa Maria a Wittenberg) come manifesti della nuova ideologia.
L’artista, formulò anche l’iconografia ufficiale della ritrattistica dei capi del movimento, improntandola alla massima semplicità. L’immagine di Caterina von Bora in coppia con il marito, attestava l’abolizione del celibato dei sacerdoti.
Cranach elaborò anche incisioni di immagini, a corredo dei testi sacri riformati da Lutero, che in parte pubblicò lui stesso come editore.
L'importanza di Wittenberg è dovuta alla sua stretta correlazione con la figura di Martin Lutero e gli inizi della Riforma protestante: molti degli edifici storici della città sono associati con gli eventi di quel tempo. Parte del monastero agostiniano in cui Lutero dimorò, prima come semplice monaco e successivamente come priore, si è conservato fino ai giorni nostri ed è considerato uno dei principali musei del mondo dedicati alla sua figura, contenente numerosi oggetti d'arte medievali e ritratti eseguiti da Lucas Cranach il Vecchio e dal figlio.





[Il polittico è posto sull’altare della chiesa di Santa Maria di Wittenberg (Germania), è stato dipinto nel 1547 da Lucas Cranach il Vecchio, che può essere considerato l’ideologo del Luteranesimo nel campo della pittura, ed è composto da quattro pannelli. I primi tre ci illustrano i tre sacramenti riconosciuti dai luterani: il battesimo, l’eucaristia e la penitenza. Nell’ultimo, posto in basso, c’è il crocifisso.
Partendo dal primo pannello possiamo osservare Filippo Melantone, stretto collaboratore di Lutero, mentre sta amministrando presso un fonte battesimale il primo sacramento dell’iniziazione cristiana. Accanto a lui, sulla destra, scorgiamo l’iniziatore della riforma protestante che tiene aperto il libro della bibbia. Sulla sinistra invece vediamo il pittore stesso che regge la veste bianca che il neo battezzato indosserà. Vicino a Lucas Cranach il Vecchio ci sono la madre e il padre del bambino in ricchi abiti cinquecenteschi.
Veniamo ora al pannello centrale. Sia per la sua posizione che per le sue dimensioni comprendiamo che questa è la scena più importante.
Il momento dell’ultima cena è rappresentato ispirandosi all’iconografia orientale che mostra spesso gli apostoli disposti a mo’ di “sigma” mentre Gesù è seduto a capotavola. La scena si ispira alla narrazione di Giovanni: vediamo infatti l’apostolo prediletto dal Signore appoggiarsi sul suo petto mentre Gesù imbocca Giuda. Fra i dodici apostoli è seduto Lutero il quale sta dando il calice ad un uomo che ha le sembianze di Lucas Cranach il Giovane. In questo particolare possiamo vedere uno dei capisaldi della dottrina eucaristica luterana e cioè la comunione sotto le due specie.
I Luterani infatti non riconoscono la dottrina cattolica della concomitanza e pertanto ritengono valida la comunione solo se ricevuta attraverso entrambe le specie del pane e del vino.
Nel terzo pannello è raffigurato Johannes Bugenhagen, pastore della chiesa di Santa Maria di Wittenberg, mentre con una chiave accoglie nella comunione della chiesa un fedele e con un’altra allontana un peccatore. Fino a questo momento, a livello iconografico, le chiavi sono sempre state un attributo di Pietro. Lutero però ha contestato (erroneamente) la dottrina del primato asserendo che le chiavi non appartengono al solo Pietro, ma a tutta la chiesa. Ecco perché Cranach le dipinge nelle mani di un semplice pastore.
Veniamo ora all’ultimo pannello posto in basso. Al centro vi è il crocifisso, sulla destra Lutero che predica e sulla sinistra i fedeli che lo ascoltano. Fra questi si può riconoscere la moglie di Lutero, l’ex suora cistercense Caterina von Bora , mentre dà la mano a loro figlio Hans.
Se è vero che il crocifisso occupa una posizione centrale nel pannello dando espressione alla cosiddetta “theologia crucis”, dall’altra dobbiamo constatare che esso ha dimensioni più piccole rispetto alla sovrastante scena dell’ultima cena e questo perché per Lutero, a differenza della comune dottrina di allora, vede nell’eucarestia il memoriale della cena e non del sacrificio di Cristo sulla Croce].


Nella Crocifissione di Lucas Cranach, dipinta per la chiesa dei SS. Pietro e Paolo a Weimar (1555), il sangue del Cristo cade direttamente sulla testa del pittore stesso, che si è autoraffigurato fra il Battista e Lutero. Ogni mediazione ecclesiologica è iconograficamente scomparsa.



- cfr. la distruzione di abbazie (e cattedrali presso gli scozzesi)

La cattedrale di St Andrews, distrutta da John Knox nel 1559


Dunkeld Cathedral - distrutte tutte le immagini nel 1560 e scoperchiata.




Holyroodhouse con i resti di Holyrood Abbey, l'abbazia della Santa Croce - danneggiata gravemente dai protestanti inglesi nel 1544 (ad opera di Enrico VIII) e 1547 (ad opera del reggente Somerset a nome del re minorenne Edoardo succeduto a Enrico VIII) e via via definitivamente distrutta dopo il 1559 dalla Riforma scozzese.


[John Knox è il riformatore che dette vita a quella che sarà poi detta la Chiesa presbiteriana, poiché, ritenendo l’episcopato contrario al Nuovo Testamento, rifondò la Chiesa sulla base dei presbitèri (oggi diremmo delle parrocchie), eliminando ogni struttura episcopale.
Knox, originariamente prete cattolico, aderì ad una forma “integralista” di Riforma legata al calvinismo. Enrico VIII guidò la Riforma in Inghilterra “limitandosi” ad espellere tutti i monaci e le monache, i frati e le suore dal paese per eliminare ogni punto di riferimento per la popolazione cattolica e per impadronirsi dei loro beni, con i quali si conquistò il consenso della nobiltà, spartendoli con essa. In questa maniera salvò la forma esteriore “episcopale” della Chiesa e si “limitò” a porre nelle cattedrali vescovi da lui scelti, fedeli allo Stato, in una piena compenetrazione di Stato e Chiesa guidati dalla sua persona come sovrano onnipotente.
Per questo motivo distrusse fisicamente ogni abbazia, ogni convento, ogni priorato, appropriandosi dei mattoni e delle travi lignee di essi, ma non distrusse le cattedrali.
Quando si giungerà alla lotta violenta fra seguaci della riforma anglicana e presbiteriani, la Chiesa fondata da Enrico VIII sarà detta in Scozia “episcopaliana”, per sottolineare che cercava di conservare i vescovi e conseguentemente, le cattedrali.
John Knox, invece, fin dall’inizio, ordinò la distruzione non solo di tutti i conventi e di tutte le abbazie, non solo delle immagini, delle statue e delle tombe presenti nelle chiese, ritenute tutte idolatriche, ma volle anche la distruzione delle cattedrali, simbolo dell’episcopato.
In questo modo tutte le cattedrali romaniche e gotiche di Scozia vennero devastate insieme ai conventi e alle abbazie. Si salvarono solo quella di Glasgow e quella di Kirkwall. Ovunque in Scozia si vedono oggi ruderi di chiese medioevali circondate da prati, scoperchiate e non più in uso.
John Knox iniziò la Riforma nella città universitaria di St Andrews predicando dal pulpito della chiesa della Santissima Trinità (Holy Trinity) l’11 giugno 1559 sull’episodio di Gesù che cacciò via dal Tempio tutti i venditori di animali per il sacrificio. Dalla chiesa della Trinità i suoi ascoltatori da lui guidati si diressero immediatamente a distruggere la cattedrale e l’abbazia di St Andrews, da allora in rovina].








3 - La purificazione della memoria, una caratteristica del cristianesimo



- Chiedere tutti perdono di intolleranza e censura e ancor più violenze fisiche: non una difesa a priori, bensì un’apertura di orizzonti. La fede nella grazia che opera nel peccato

Presso i cattolici

cfr. il monumento a Giordano Bruno a Campo dei Fiori

Monumento a Giordano Bruno – piazza Campo de’ Fiori Roma


Ma esso comprende, fra gli altri, anche:

- Lucilio (Giulio Cesare) Vanini, perseguitato dai cattolici perché si fa protestante e dagli anglicani perché torna ad essere cattolico, ucciso infine a Tolosa. Nel medaglione di Vanini, si vede in piccolo la testa di Lutero, perseguitato e a sua volta persecutore di eretici e di streghe.

- Aonio Paleario, ucciso come eretico dall'Inquisizione nel 1570 e Michele Serveto, ucciso come eretico dal tribunale di Calvino a Ginevra nel 1553.

Presso i protestanti

- da A. Lonardo, Galilei fu il fondatore degli studi biblici moderni, più che il padre dell’eliocentrismo. Una nuova prospettiva sull’astronomo pisano.
La straordinaria vicenda della badessa Caritas Pirckheimer e delle clarisse di Norimberga (monasterodi Santa Chiara) che vennero costrette ad ascoltare 111 prediche protestanti perché si convertissero al luteranesimo e, unica fra le comunità religiose, poterono sussistere fino all’estinzione, senza poter però più accogliere novizie e senza poter più ricevere la Comunione fino alla morte (poiché tutti i preti cattolici erano stati espulsi dalla città)[1], mostra quanto il principio del cuius regio eius religio ebbe effettivamente vigore. Si pensi che In Svezia venne nuovamente permesso il culto pubblico cattolico solo a partire dal 1951, dopo un divieto di più di quattro secoli[2].



Similmente nell’Inghilterra della regina Elisabetta I, dopo che già Enrico VIII aveva espulso tutti i frati e i monaci e distrutto le loro abbazie, un prete cattolico trovato a celebrare messa era condannato a morte dopo tortura, insieme ai laici che lo avessero ospitato[3]. Molti storici ritengono addirittura che W. Shakespeare fosse in realtà cattolico, ma che, essendogli vietata tale professione di fede, l’abbia vissuta in segreto[4]: la figlia Susanna compare nelle liste di “ricusanza” del 1606, mentre il padre John era certamente cattolico e sembra che non intendesse piegarsi alla fede anglicana allora al potere.
Negli anni immediatamente successivi alla questione galileiana, addirittura, i puritani in Inghilterra inasprirono le misure di stampo religioso, perseguitando ormai non più solo i cattolici, ma anche gli anglicani che li avevano perseguitati a loro volta. Nel 1642, cioè 9 anni dopo la condanna di Galilei, essi emanarono le prime misure restrittive nei confronti dei teatri e nel 1647, cioè 14 anni dopo la condanna di Galilei, ne decretarono la sistematica distruzione in tutta l’Inghilterra, perché ritenevano che gli spettacoli teatrali corrompessero i costumi del popolo[5]. I puritani decretarono contemporaneamente, sempre in età barocca, la distruzione di tutti gli organi nelle chiese e imposero l’abbandono di strumenti come i violini, in quanto strumenti che avevano il potere di distrarre il popolo (solo con la “restaurazione” di Carlo II si ebbe una rinascita musicale in Inghilterra con figure come quella di Henri Purcell[6]).
Tali fatti sono qui evocati non in chiave giustificativa dell’atteggiamento cattolico di allora, bensì a stigmatizzare ancor più quell’errato atteggiamento che fu di un’epoca che cercò di controllare l’“espressione pubblica”, ritenendo che ciò avrebbe giovato al mantenimento dei buoni costumi.
D’altro canto è interessante come altri uomini del tempo lavorassero fianco a fianco al di là delle loro appartenenze religiose, come nel caso del canonico cattolico Copernico che approfondì le sue ricerche astronomiche insieme a protestanti come Retico e Osiander che gli furono vicini negli ultimi anni della sua vita, in una sorta di ecumenismo ante litteram.

Presso le sinagoghe

- da H. Méchoulan, Gli ebrei di Amsterdam all’epoca di Spinoza, ECIG, Genova, 1991, pp. 145-146
I Signori del ma'amad [consiglio degli anziani] comunicano alle vostre Grazie che, essendo venuti a conoscenza da qualche tempo delle cattive opinioni e della condotta di Baruch de Spinoza, si sforzarono in diversi modi e promesse di distoglierlo dalla cattiva strada. Non potendo porre rimedio a ciò e ricevendo per contro ogni giorno le più ampie informazioni sulle orribili eresie che praticava e sugli atti mostruosi che commetteva, e avendo di ciò numerosi testimoni degni di fede che deposero e testimoniarono soprattutto alla presenza del suddetto Spinoza, egli è stato riconosciuto colpevole; esaminato tutto ciò alla presenza dei Signori rabbini, i Signori del ma'amad hanno deciso, con l'accordo dei rabbini, che il suddetto Spinoza sia messo al bando ed escluso dalla Nazione d'Israele a seguito del cherem che pronunciamo ora in questi termini: Con l'aiuto del giudizio dei santi e degli angeli, noi escludiamo, cacciamo, malediciamo ed esecriamo Baruch de Spinoza con il consenso di tutta la santa comunità, in presenza dei nostri libri sacri e dei seicentotredici precetti in essi racchiusi. Formuliamo questo cherem come Giosuè lo formulò contro Gerico. Lo malediciamo come Elia maledisse i figli e con tutte le maledizioni che si trovano nella Legge. Che sia maledetto di giorno, che sia maledetto di notte; che egli sia maledetto durante il sonno e durante la veglia, che sia maledetto quando entra e che sia maledetto quando esce. Voglia l'Eterno accendere contro quest'uomo tutta la Sua collera e riversare su di lui tutti i mali menzionati nel libro della Legge. E voi restiate legati all'Eterno, vostro Dio, che Egli vi conservi in vita. Sappiate che non dovete avere con (Spinoza) alcuna relazione né scritta né verbale. Che non gli sia reso alcun servizio e che nessuno l'avvicini a meno di quattro cubiti. Che nessuno viva sotto lo stesso tetto con lui e che nessuno legga alcuno dei suoi scritti.

Presso le nuove inquisizioni laiche

- dalla rivoluzione francese (4 gennaio 1791, obbligo per il clero di giurare fedeltà alla Costituzione: clero “giurato” e clero “refrattario” che viene dichiarato decaduto) ad oggi

- Dinanzi a Galilei







Galileo Galilei nasce nel 1564 a Pisa. Dieci anni più tardi, con i fratelli e il padre musicista, si trasferisce a Firenze, dove studia medicina. Ma si accorge che non è la sua strada e lascia il corso per dedicarsi alla sua vera passione: la matematica.
Dopo un tentativo fallito, nel 1589 ottiene la cattedra di matematica all’università di Pisa, proseguendo gli studi sul pendolo, sui corpi materiali e sul piano inclinato. In questi anni può garantirsi l’appoggio della famiglia del marchese Guidobaldo Del Monte, scienziato non dilettante, e di suo fratello il cardinale Francesco Maria, lo “scopritore” di Caravaggio.
La svolta s’impone nel 1609, quando dall’Olanda arriva uno strumento in grado di amplificare le potenzialità della vista: si chiama cannocchiale e nel 2009 ricorre il quarto centenario dall’invenzione. La sua capacità di ingrandimento viene in breve perfezionata da Galileo per guardare il cielo a distanze inimmaginabili.
Nel 1610 i sensazionali risultati dello scienziato sono raccolti e diffusi in latino e in volgare in un testo, il Sidereus Nuncius. Il trattato viene stampato – previa autorizzazione del tribunale dell’Inquisizione – con il corredo di numerose immagini. Gli argomenti sui quali verte sono la luna, la via lattea e le nebulose, le stelle fisse e quattro pianeti veduti ex novo e dedicati ai membri della famiglia Medici.
Nel 1611, a un anno di distanza dalla pubblicazione del Sidereus Nuncius, le scoperte astronomiche di Galileo ivi enunciate ottengono il favore del Collegio Romano. Sono presenti, fra gli altri, Maffeo Barberini, futuro papa Urbano VIII e Roberto Bellarmino, fine teologo e cardinale, canonizzato nel 1930 da Pio XI. Bellarmino, morto prima del processo a Galileo, mantiene una posizione di apertura nei confronti delle tesi galileiane, consapevole del fatto che la scienza non è detto che intacchi la teologia. Afferma: «Dico che quando ci fusse vera demostrazione che il Sole stia nel centro del mondo e la Terra nel terzo cielo, e che il sole non circonda la terra, ma la Terra circonda il Sole allora bisogneria andar con molta considerazione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e piuttosto dire che non l’intendiamo dire che sia falso quello che si dimostra».
È indubbio quindi che a poca distanza dall’enunciazione della teoria, le alte gerarchie della Chiesa non avversarono le novità galileiane, piuttosto ne delimitarono il campo all’ambito scientifico.
Che la Chiesa non si fosse schierata contro Galileo da subito, è stato sottolineato nel discorso tenuto da Giovanni Paolo II alla Pontificia Accademia delle Scienze nel 1992. E lo testimonia un’opera importantissima: un affresco nella basilica di Santa Maria Maggiore a Roma. Dimenticato, e non solo perché situato in una posizione elevata e poco visibile, l’affresco fa luce sulla vicenda di Galileo, della Chiesa e dell’arte della Controriforma.]

Lutero, Discorsi a tavola

dai Tischreden redatto da Anton Lauterbach e relativo al 4 giugno 1539, in D. Martin Luthers Werke, Tischreden, 6 voll., Weimar, 1912-1921, vol. 4 (1916), n. 4638, pp. 412-413 (citato in M.-P. Lerner, Aux origines de la polémique anticopernicienne (II).Martin Luther, Andreas Osiander et Philipp Melanchton, in Revue des sciences philosophiques et théologiques 90 (2006), pp. 410-411).
«Si parla di un nuovo astronomo che avrebbe dimostrato che la Terra si muove invece del cielo, del Sole e della Luna, come se un uomo su un carro o in barca pretendesse che non si muove di posto, ma che sono la Terra e gli alberi che viaggiano. Ma è così al giorno d’oggi: quando un uomo vuol fare il furbo, non gli deve piacere ciò che piace agli altri, così è colui che vuole mettere sottosopra tutta l’astronomia. Ma anche se l’astronomia è confusa, io credo nella Santa Scrittura, perché è al Sole che Giosuè ha ordinato di fermarsi e non alla Terra».

Il rifiuto dell’eliocentrismo in ambito luterano vide ulteriori tensioni fino ad oltre la metà del seicento, quando, nel 1679, Niels Celsius venne costretto ad abiurare all’eliocentrismo dai docenti dell’Università di Uppsala: lo studioso aveva difeso la centralità del sole nell’opera De principiis astronomicis propriis. (Cfr. H. Sandblad, The Reception of the Copernican System in Sweden, in Colloquia Copernicana I, Études sur l’audience de la théorie héliocentrique (Studia Copernicana V), Wroclaw, 1972, pp. 241-270, in particolare pp. 251-259).

- Madonna galileiana



Nella cupola della Cappella Paolina in Santa Maria Maggiore il pittore toscano Ludovico Cardi, detto il Cigoli dal nome del luogo natio, artista tutt’altro che “minore” che a Roma aveva già dato prova di sé, rappresenta una Immacolata Concezione in modo tutt’altro che tradizionale.
La Madonna del Cigoli, infatti, si erge su una luna del tutto insolita. Non si tratta del “classico” crescente lunare, ma di una rappresentazione molto più naturalistica, frutto appunto delle osservazioni che Galileo aveva pubblicato nel Sidereus Nuncius: «In primo luogo diremo dell’emisfero della Luna che è volto verso di noi. Per maggior chiarezza divido l’emisfero in due parti, più chiara l’una, più scura l’altra: la più chiara sembra circondare e riempire tutto l’emisfero, la più scura invece offusca come nube la faccia stessa e la fa apparire cosparsa di macchie».
Proprio come le parole e i disegni di Galileo descrivono, Cigoli rappresenta la luna ai piedi della Vergine, con le macchie e una specie di nuvola sottostante che simula i vapori. La scoperta scientifica, quasi contemporaneamente alla sua diffusione, viene quindi adattata al campo della figurazione sacra. Siamo tra l’ottobre 1610 e il novembre del 1612, a un anno dall’invenzione del cannocchiale, poco dopo la scomparsa dei due pittori che avevano rivoluzionato il modo di rappresentare la realtà, Annibale Carracci e il Caravaggio.
[...] L’affresco in Santa Maria Maggiore fu realizzato per e con il consenso del papa Paolo V Borghese, nella cappella che doveva diventare il suo mausoleo [...]. È significativo ricordare il giudizio che diede dell’affresco uno degli uomini più colti di Roma, Federico Cesi, scienziato e fondatore dell’Accademia dei Lincei, in una lettera inviata a Galileo nel 1612. È un elogio sperticato all’affresco del Cigoli, il quale «come amico e leale» di Galileo, «sotto l’immagine della beata Vergine ha dipinto la Luna nel modo che da Vossignoria è stata scoperta, colla divisione merlata e le sue isolette».
L’Immacolata dipinta dal Cigoli non verrà mai cancellata o nascosta sotto altra pittura, con buona pace di coloro che vedrebbero certa arte di soggetto sacro imbrigliata nelle trame della censura.

- È precisamente il Galilei esegeta che imposta correttamente il problema: non basta la sola Scriptura







4 - Vedere con lo sguardo dei santi







4.1 - La questione della Riforma cattolica contemporanea alla Riforma protestante e della Controriforma è una questione storica, ma anche teologica



- da H. Jedin, Riforma cattolica e controriforma, in H. Jedin (a cura di), Storia della chiesa VI, Jaca, Milano, 1975, pp. 513-514
Tanto il concetto di «riforma cattolica» quanto quello di «controriforma» presuppongono nel termine «riforma» la designazione storica della crisi protestante con la conseguente frattura della fede e della chiesa. Con «controriforma» il giurista Pütter di Gottinga (1776) intese la riconquista alla fede cattolica, operata con la forza, delle regioni divenute protestanti. Ranke parlò inizialmente di controriforme (al plurale), ma presto riconobbe il carattere unitario del movimento e ne vide la radice nella «restaurazione, quasi piantagione ex novo, del cattolicesimo». Con l'opera di Moritz Ritter Deutsche Geschichte im Zeitalter der Gegenreformation (Storia della Germania al tempo della contro-riforma, 1889), il concetto di controriforma, contre-réforme, counter-reformation, contrarreforma, prese piede anche in Germania, ma si urtò contro il rifiuto quasi unanime della storiografia cattolica, perché esso sembrava concepire il nuovo consolidarsi della chiesa cattolica in modo unilaterale, come reazione allo scisma protestante e perché portava il marchio dell'uso della forza in materia di religione. L. Pastor, J. Schmidlin e altri preferirono quindi la designazione di «restaurazione cattolica», nella quale tuttavia non si esprimono sufficientemente né la continuità col medioevo, né i nuovi elementi apportati dalla riforma tridentina.

Nel frattempo W. Maurenbrecher, in dipendenza dal Ranke, aveva adottato (1880) il termine di «riforma cattolica» per designare quel rinnovamento di sé operato dalla chiesa, specialmente in Italia ed in Spagna, che si riannodava ai tentativi di riforma del tardo medioevo. Egli era stato preceduto dai cattolici Giuseppe Kerker (Katholische Reform, 1859) e Costantino Höfler (Romanische Reformation, 1878). Noi diamo la preferenza a questa designazione di «riforma cattolica», perché allude ai tentativi di rinnovamento che si ebbero nella chiesa dal XV al XVI secolo, senza escludere, come il termine «restaurazione», i nuovi elementi che fanno la loro comparsa e l'influsso esercitato dalla crisi protestante sullo sviluppo del movimento. Tale designazione ha tuttavia bisogno di venir completata dal concetto di controriforma, perché di fatto la chiesa rinnovata e rafforzata internamente, dopo il concilio di Trento, passa al contrattacco e riconquista parte del terreno perduto, sia pure mediante un'alleanza con l'assolutismo confessionale, il cui significato è stato messo in evidenza dall'Eder. Entrambi i concetti hanno quindi una loro giustificazione, designano però dei movimenti non separati, ma connessi tra loro. Anche autori cattolici come Paschini e Villoslada ritengono di poter usare la designazione di controriforma per l'intero movimento di rinnovamento e di riconquista.
Soltanto collegati tra loro i concetti di riforma cattolica e di controriforma possono servire a designare quest'epoca della storia ecclesiastica.

- da G. Martina, Storia della chiesa, Ut unum sint, Roma, 1980, p. 244
In sostanza, il problema «riforma o controriforma?», rinnova in un altro contesto la questione del rapporto fra il momento carismatico e quello giuridico tante volte incontrato: la riforma cattolica corrisponde al momento carismatico, e mostra maggiore spontaneità e freschezza, ma è più limitata; la controriforma corrisponde al momento giuridico, e sembra rallentare lo slancio iniziale, mentre in realtà ne assicura la stabilità.
In questo senso è stato detto, da storici laicisti, che la riforma cattolica fu sconfitta proprio nel momento in cui sembrava riportare vittoria, acquistando l'appoggio della gerarchia, mentre storici cattolici hanno opposto che la riforma cattolica poté vincere proprio perché divenne controriforma.







4.2 - I santi: dividono ed, insieme, uniscono



- dall’Editoriale de “La Civiltà Cattolica”, n. 3562, 21/11/1998
Nel Cinquecento la Chiesa ha visto il trionfo del paganesimo rinascimentale, il dilagare della corruzione, giunta con Alessandro VI fino al soglio pontificio, un’incredibile ignoranza del clero, l’abbandono delle sedi vescovili, le pratiche simoniache, la scissione della cristianità occidentale a causa delle riforme luterana e calvinista, il sacco di Roma, la minaccia dell’invasione turca. Sembrava che sotto tanti colpi la Chiesa dovesse crollare, tanto più che Carlo V, il difensore ufficiale del cattolicesimo, si alleava con i principi protestanti, i quali si impadronivano della maggior parte delle regioni settentrionali dell’Europa, e Francesco I, re di Francia, si alleava con Solimano, il nemico della cristianità. Eppure, forse in nessun secolo della sua storia come nel Cinquecento la Chiesa diede segni più forti di vitalità. È straordinario il numero dei santi canonizzati vissuti nel Cinquecento. Eccone alcuni: Girolamo Emiliani, Antonio Maria Zaccaria, Ignazio di Loyola, Carlo Borromeo, Gaetano da Thiene, Giuseppe Calasanzio, Filippo Neri, Francesco Saverio, Pietro Canisio, Francesco Borgia, Giovanni di Dio, Francesco Caracciolo, Giovanni Leonardi, Andrea Avellino, Pietro di Alcantara, Tommaso da Villanova, Tommaso Moro, Giovanni Fisher, Pio V, Stanislao Kostka, Luigi Gonzaga, Pasquale Baylon, Camillo de Lellis, Lorenzo da Brindisi, Turibio di Mongrovejo, Giovanni della Croce, Francesco Solano, Roberto Bellarmino, Angela Merici, Teresa di Gesù, Maria Maddalena de’ Pazzi, ecc. È un elenco impressionante, anche se incompleto: si tratta, nella maggior parte dei casi, di giganti della santità cristiana, della carità, della mistica e dell’apostolato cattolico.

Non è tutto. Nel Cinquecento fu celebrato il Concilio di Trento il quale, da una parte, mise in chiaro la dottrina cattolica e, dall’altro, pose le basi per la riforma della vita cristiana; furono fondati molti ordini religiosi (teatini, scolopi, barnabiti, cappuccini, gesuiti, fatebenefratelli, camilliani, carmelitani scalzi, ecc.), che costituirono una delle forze ecclesiali più vive e attive; vennero aperte al Vangelo l’Asia, l’Africa e l’America Latina; fu definitivamente respinta la minaccia turca con la vittoria di Lepanto; si riuscì a fermare la diffusione del protestantesimo nel sud dell’Europa e a riconquistare in parte il terreno perduto con la riforma luterana. Lo storico che si pone di fronte a questi fatti non può non essere sorpreso dalla capacità della Chiesa di riprendersi da pesanti sconfitte e di rinnovarsi continuamente; ma la sua sorpresa crescerà, se rifletterà che non soltanto essa è stata ed è combattuta da forze esterne ad essa assai superiori, ma è debole interiormente. Certo, se la Chiesa fosse stata e fosse forte e vigorosa e potesse quindi combattere con i suoi avversari ad armi pari, la sua sopravvivenza potrebbe spiegarsi; ma sfortunatamente la Chiesa è debole e divisa; ci sono in essa mediocrità, debolezze, peccati; c’è spesso mancanza di intelligenza dei problemi, di strategie adeguate, di iniziativa e di coraggio. In realtà, i colpi più duri si sono abbattuti sulla Chiesa non dal di fuori, ma dall’interno, per opera dei suoi stessi figli: per causa loro essa ha versato le lacrime più amare e ha corso i più gravi pericoli per la stessa esistenza. La storia è piena di debolezze e di tradimenti perpetrati dai suoi figli ai suoi danni. Eppure, sottoposta ad attacchi combinati esterni ed interni, la Chiesa non è finita, ma ogni volta si è ripresa vigorosamente, mentre i suoi avversari, tanto più forti di essa, sono scomparsi.

- ma pensiamo anche all’arte (cfr. Michelangelo, il Mosè per Giulio II e la cupola): è lì, linea perpendicolare che unisce

Cfr. Il Mosè di Michelangelo e la “tragedia della sepoltura”: la tomba di Giulio II e le sue vicende, dalla basilica di San Pietro in Vaticano a San Pietro in Vincoli, di Andrea Lonardo



La tomba di Giulio II è l’opera d’arte meritatamente più nota della basilica di San Pietro in Vincoli. Parlare di questa tomba vuol dire parlare di che cos’è il rinascimento italiano, di che cos’è la riforma cattolica e la controriforma, di chi è Michelangelo, vuol dire dare un giudizio su cinquant’anni di storia della chiesa. Chiaramente questo è impossibile in poche battute; la pretesa è quella di dire qualcosa che sia utile ad orientarsi. La nostra analisi si distanzierà sensibilmente da studi che vanno per la maggiore, che comunque saranno tenuti presenti. Questo breve scritto è, soprattutto, un invito a contemplare l’opera nella sua bellezza, dopo aver ascoltato qualcosa della sua storia e della sua iconografia. Innanzitutto le date. Giulio II (1503-1513) chiama Michelangelo a lavorare alla sua tomba nel 1505. Michelangelo è ancora molto giovane. Ha già realizzato due opere straordinarie che sono la Pietà (terminata nel 1499, realizzata all’età di 23 anni circa) ed il David (terminato nel 1504). L’opera si presenta a noi, invece, come venne terminata nel 1545, cioè 40 anni dopo. Nel frattempo Michelangelo ha dipinto la volta della Sistina (1508-1512) su incarico sempre di Giulio II (che muore nel 1513), ha lavorato alle Tombe medicee ed alla sacrestia Nuova di San Lorenzo in Firenze (1520-1534)[1], ha dipinto il Giudizio universale della Cappella Sistina (1535-1541) su incarico di papa Paolo III, solo per citare alcune delle opere più importanti. Mentre termina la tomba di Giulio II è contemporaneamente impegnato negli affreschi della Cappella Paolina (1542-1550) ed, immediatamente dopo, diverrà (ufficialmente dal gennaio del 1547) il responsabile della Fabbrica di San Pietro in Vaticano alla quale lavorerà fino alla morte, riuscendo a vedere ormai anziano la costruzione del tiburio della cupola, ma non ancora della cupola stessa della quale realizzerà solo un grande modello ligneo.



Perché quarant’anni per giungere a questa opera? Procediamo passo passo. Giulio II, dunque, chiama da Firenze Michelangelo, che ha circa 29 anni, a costruire la sua tomba. Lo scultore propone al papa un disegno che viene subito accettato.
Per immaginare come doveva essere il disegno originario non abbiamo che da guardare l’opera che abbiamo davanti. È il Vasari, nelle sue Vite, a darci questo suggerimento. Immaginiamo che questa sia il lato corto della tomba e che dove ora è il Mosè vi sia invece una apertura che da accesso ad una camera interna dove è collocata la tomba del papa. Dove sono le quattro erme, immaginiamo quattro Prigioni a figura intera -Michelangelo ne scolpì due che sono ora al Louvre e quattro che sono a Firenze, nelle Gallerie dell’Accademia- e dove sono le due statue femminili due Vittorie –ne fu scolpita una che ora è a Palazzo Vecchio.
Il Mosè doveva essere collocato in uno degli angoli, immaginiamolo al posto del Profeta che è al secondo livello, ed all’altro angolo doveva esser posta una statua di analoga grandezza raffigurante San Paolo. La tomba sarebbe stata non a parete, come è ora, ma a camera, quindi con due lati lunghi una volta e mezzo quello che ci è dinanzi,e, posteriormente, una seconda facciata simile a questa, con lo stesso corredo di statue. Papa Giulio II, che vedete sotto la Madonna in alto, sarebbe stato scolpito in alto a questa costruzione. Torneremo subito sul significato di queste immagini; ciò che è importante è, per ora, averle dinanzi a noi con la fantasia.
Così Vasari descrive questa facciata come la vide, e come noi la vediamo, paragonandola al suo disegno originario:
[Michelagnolo] messe su il primo imbasamento intagliato con quattro piedistalli che risaltavano in fuori tanto, quanto prima vi doveva stare un prigione per ciascuno, che in quel cambio vi restava una figura di un termine; e perché da basso veniva povero, aveva per ciascun termine messo a piedi una mensola che posava a rovescio in su que’ quattro piedistalli. I termini mettevano in mezzo tre nicchie, due delle quali erano tonde dalle bande e vi dovevano andare le Vittorie, in cambio delle quali in una messe Lia figliuola di Laban per la Vita attiva, con uno specchio in mano per la considerazione che si deve avere per le azioni nostre, e nell’altra una grillanda di fiori per le virtù che ornano la vita nostra in vita e dopo la morte la fanno gloriosa. L’altra fu Rachel sua sorella per la Vita contemplativa con le mani giunte, con un ginocchio piegato, e col volto par che stia elevata in ispirito: le quali statue condusse di sua mano Michelagnolo in meno di un anno. Nel mezzo è l’altra nicchia, ma quadra, che questa doveva essere nel primo disegno una delle porte che entravano nel tempietto ovato della sepoltura quadrata. Questa essendo diventata nicchia, vi è posto in su un dado di marmo la grandissima e bellissima statua di Moisè.
La storia della tomba di Giulio II si lega, come è noto, a quella della basilica di San Pietro in Vaticano, divenendo un tutt’uno con essa. Michelangelo stesso propose, infatti, al papa, per creare un luogo adatto ad erigere la tomba, di riprendere il progetto già elaborato –ed iniziato- da Bernardo Rossellino di prolungare la navata centrale dell’antica basilica costantiniana, in modo da realizzare un coro dietro l’altare maggiore eretto sulla tomba di Pietro.
Così Ascanio Condivi, allievo di Michelangelo e suo antico biografo, ci racconta nella sua Vita di Michelagnolo Buonarroti, scritta nel 1553 (Michelangelo sarebbe morto undici anni dopo, nel 1564):
Visto questo disegno, il Papa mandò Michelagnolo in San Pietro a veder dove comodamente si potesse collocare. Era la forma della Chiesa allora a modo d’una croce, in capo della quale Papa Nicola V aveva cominciato a tirar sù la tribuna di nuovo: e gia era venuta sopra terra, quando morì, all’altezza di tre braccia. Parve a Michelagnolo, che tal luogo fosse molto a proposito: e tornato al Papa gli spose il suo parere, aggiungendo, che se così paresse a Sua Santità, era necessario tirar su la fabbrica e coprirla. II Papa l'adomandò: Che spesa sarebbe questa? A cui Michelagnolo rispose: Centomila scudi. Sien -disse Giulio- ducento milia. E mandando il Sangallo architettore e Bramante a vedere il luogo, in tai maneggi venne voglia al Papa di far tutta la Chiesa di nuovo. Ed avendo fatti fare più disegni, quel di Bramante fu accettato, come più vago e meglio inteso delli altri. Cosi Michelagnolo venne ad esser cagione e che quella parte della fabbrica già cominciata si finisse (che se ciò stato non fusse, forse ancora starebbe come ell'era) e che venisse voglia al papa di rinovare il resto, con nuovo e più bello e più magno disegno.
Cerchiamo di capire meglio il racconto del Condivi. La chiesa a modo d’una croce è l’antica basilica costantiniana. Nicola V è papa Niccolò V, il pontefice che dette slancio al rinascimento in Roma, che nel 1441 aveva dato incarico a Bernardo Rossellino di creare un coro al posto dell’antica abside della basilica vaticana; ricorderete che il Rossellino riuscì a realizzare solo le fondamenta e l’alzato di tre braccia della nuova opera, senza intaccare ancora la struttura della basilica costantiniana. L’intenzione iniziale di Michelangelo, accolta da Giulio II, era quella di mantenere intatta la struttura di San Pietro e di limitarsi (si fa per dire) alla realizzazione del coro, secondo lo schema del Rosselino, per porre la tomba del papa nel nuovo spazio che si sarebbe così realizzato alle spalle della tomba di Pietro e dell’altare maggiore.
Giulio II allora, mentre Michelangelo era a Carrara per far cavare i marmi adatti alla sepoltura, si rivolse nello stesso anno a Sangallo architettore e Bramante per la costruzione del nuovo coro. Ma, come dicevamo, siamo nel pieno della stagione rinascimentale ed ogni artista –ed i mecenati con loro- si esprime nel nuovo stile che si richiama all’antico, sostituendo, ove possibile, ciò che ha un sapore medioevale.
Un autore del tempo, Egidio da Viterbo, ci informa che Bramante subito cercò di coinvolgere il pontefice non semplicemente nell’allargamento del coro, ma in un rifacimento totale della basilica vaticana, proponendo all’inizio, addirittura, una traslazione dell’asse della basilica perché essa si aprisse con il suo nuovo ingresso davanti l’obelisco che allora non era ancora davanti alla basilica, bensì sull’attuale fianco sinistro. Giulio II rispose, sempre secondo Egidio da Viterbo, che nihil ex vetere templi situ inverti, niente doveva essere invertito nella sistemazione del sito, perché “non sta scritto: la tomba [di Pietro] sia posta nel tempio, bensì il tempio sia posto intorno alla tomba [di Pietro]”.
Bramante riuscì, però, a conquistare Giulio II all’idea che non si trattasse tanto di allargare il coro della basilica per porvi la propria tomba, quanto piuttosto di porre mano ad un totale rifacimento dell’intera costruzione. Questa decisione fu l’inizio di quella che il Condivi chiama la “tragedia della Sepoltura”, cioè il dramma, agli occhi di Michelangelo, dei continui ridimensionamenti del progetto originario della tomba di Giulio II, con i conseguenti rinvii della sua realizzazione.
Giulio II decise, infatti, contestualmente all’approvazione del progetto bramantesco di riedificare l’intera basilica, di tagliare i fondi per la propria tomba per impiegare tutte le forze nella realizzazione della nuova San Pietro. Michelangelo vide così il fallimento del suo primo progetto della tomba e decise la fuga da Roma il 17 aprile del 1506; il giorno successivo, il 18 aprile, Giulio II scendeva nella fossa preparata da Bramante per porre la prima pietra della nuova basilica. Così il progetto michelangiolesco della sepoltura fu la causa per la quale si diede inizio al progetto di un totale rinnovamento di San Pietro, ma quest’ultimo fu, a sua volta, il motivo della “tragedia della Sepoltura”, la causa dell’arenarsi del progetto della tomba.
Giulio II riuscì, comunque, a riconciliarsi presto con Michelangelo e a riaverlo con sé. Lo scultore, infatti, accolse infine i nuovi lavori che il pontefice gli propose, realizzando prima una statua bronzea per Bologna (il Giulio II, appunto, ora scomparso), poi affrescando la volta della Sistina con le storie della Genesi (1508-1512).

Per due motivi la volta della Sistina è così anch’essa legata alla storia della sepoltura di Giulio II. In primo luogo perché la richiesta di quegli affreschi da parte di Giulio II fu un modo per compensare la sospensione del progetto della tomba (il Condivi racconta che l’idea di proporre un così difficile lavoro pittorico a Michelangelo venisse suggerita a Giulio II da Bramante e dalla sua cerchia che speravano di vedere fallire Michelangelo in questo compito a cui non era preparato come per il lavoro di scultore).
Ma il secondo motivo è ancora più intrinseco. Molte delle figure affrescate nella volta della Sistina rappresentano la riproduzione in pittura degli studi che Michelangelo aveva già realizzato in vista della loro traduzione in scultura per la tomba del pontefice[. A loro volta, queste realizzazioni in affresco rappresenteranno un punto di riferimento quando Michelangelo tornerà a misurarsi con il progetto della tomba.
Questo avvenne dopo la morte di Giulio II avvenuta nel 1513, quando Michelangelo fu chiamato nuovamente a lavorare alla sepoltura del pontefice che si era resa necessaria. Lo scultore riuscì effettivamente a realizzare per essa (1513-1515), senza ultimarle completamente, le prime statue, cioè alcuni Prigioni, una Vittoria ed il Mosè.

T.Verdon, nel suo Michelangelo teologo[, sottolinea come queste opere si richiamino a dei temi iconografici già presenti negli artisti che lavorarono per Sisto IV, ma che questi furono, al contempo, radicalmente rielaborati. I Prigioni, infatti –fa testo già il Condivi- rappresentano le Arti liberali (fra le quali la Pittura, la Scultura, l’Architettura) “imprigionate nella morte a causa della scomparsa del loro brillante promotore Giulio II”. Nella tomba di Sisto IV, opera del Pollaiolo, le singole Arti erano rappresentate da figure femminili ognuna con i propri attributi specifici (ad esempio la Musica è rappresentata mentre suona un organo a canne).
Nei Prigioni di Michelangelo lo stesso tema è radicalmente reinterpretato. Infatti, solo il corpo umano, nella sua nudità, senza ulteriori simboli che caratterizzino le singole arti, esprime tutta la tensione della vita e, con essa, la fatica e la ricerca di armonia della creatività umana[. Le sei statue dei Prigioni che si sono conservate (due, come si è detto, al Louvre e quattro alle Gallerie dell’Accademia di Firenze) manifestano con potenza tutto questo. Anche la grande vicenda veterotestamentaria di Mosè era stata valorizzata in chiave iconografica durante il pontificato di Sisto IV, primo papa della famiglia della Rovere. Mosè era stato scelto allora per rappresentare, in forma tipologica, l’Antica Alleanza che prefigura la Nuova negli affreschi delle pareti laterali della Sistina (solo per fare un esempio, si contrappongono e si richiamano simmetricamente l’Osservanza dell’antica rigenerazione da parte di Mosè con la circoncisione del Perugino e Pinturicchio e degli stessi l’Istituzione della nuova rigenerazione attraverso il battesimo; per i parallelismi degli affreschi quattrocenteschi della Sistina, vedi su questo stesso sito L’iconografia della Sistina per le immagini in parallelo corredate di spiegazioni e la breve nota Storie di Mosè e di Gesù per una introduzione ad esse).
Il Mosè della tomba papale ci pone invece dinanzi ad una sola scultura che condensa in sé tutta la vicenda mosaica, non solo a motivo di una scelta obbligata (una statua piuttosto che un ciclo pittorico), ma ancor più in piena consonanza con la poetica di Michelangelo.
I simboli iconografici scelti sono quelli tradizionali per la figura mosaica: le tavole della Legge e i raggi di luce che emanano dal suo volto, simbolizzati dalle due corna che si dipartono dal capo. Mosè è colui che, per rivelazione divina, consegna al popolo i Dieci comandamenti, le Dieci parole della vita, ma Mosè è, proprio per questo, colui che si è avvicinato più di ogni altro a Dio, che gli ha parlato “faccia a faccia” (Dt 34,10), come un amico parla con un amico, sebbene la Scrittura sottolinei che Mosè ha visto solo le “spalle” di Dio, perché “il suo volto non lo si può vedere” (Es 33, 23), senza morire.
È solo dopo l’episodio del vitello d’oro, quando Mosè ha ottenuto il perdono divino ed ha ricevuto per la seconda volta le tavole della Legge (le prime le aveva infrante lui stesso per denunciare il peccato del popolo), che, secondo il libro dell’Esodo, il volto di Mosè brilla ormai della luce divina con una luce così splendente che gli ebrei rimasti alla base del monte non possono vederlo senza che egli si veli il viso, tanto la luce è abbagliante. “Quando Mosè scese dal monte Sinai –le due tavole della Testimonianza si trovavano nelle mani di Mosè mentre egli scendeva dal monte- non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con lui. Ma Aronne e tutti gli Israeliti, vedendo che la pelle del suo volto era raggiante, ebbero timore di avvicinarsi a lui... Quando Mosè ebbe finito di parlare con loro si pose un velo sul viso...” (Es 34, 29-35). E questo si ripeteva ogni volta, dice sempre l’Esodo, “quando entrava davanti al Signore per parlare con lui” (Es 34, 34).
La traduzione latina del IV secolo di san Girolamo -detta Vulgata perché utilizzava il latino, la lingua del volgo, del popolo- per visualizzare questi raggi di luce utilizza il termine latino corna, a motivo del quale si stabilizzò nell’iconografia la rappresentazione del viso raggiante di Mosè attraverso la rappresentazione dei due corni sulla fronte: “et ignorabat quod cornuta esset facies sua ex consortio sermonis Domini” (Es 34, 29 Vulg).

Contemplando la bellezza del Mosè di Michelangelo siamo posti dinanzi al mistero dell’uomo al cospetto di Dio, alla sua capacità di percepire la legge morale divina ed al suo desiderio di vedere Dio, ed, insieme, alla dignità che all’uomo ne deriva e che permane in lui per essere salito a parlare con Dio. Si potrebbe dire che il Mosè della tomba pontificia è il Mosè della Scrittura, ma forse è anche Giulio II, ed è Michelangelo, ed è l’uomo che Michelangelo cerca di raccontare e di porre dinanzi ai nostri occhi.

Sigmund Freud, in una delle sue permanenze a Roma, venne tutte le mattine per tre settimane consecutive a contemplare questa scultura e, nell’opera che pubblicò anonima sul Mosè, si domanda se Michelangelo abbia voluto offrire “una immagine atemporale di un carattere e di uno stato d’animo, oppure, ha rappresentato l’eroe in un momento precis. Inizialmente respinge l’idea che si sia voluto fissare un momento storico preciso, ma se poi, senza avvedersene, vi ritorna. Egli non riuscì comunque ad accorgersi che entrambe le posizioni erano da respingere, proprio perché non si avvide delle caratteristiche iconografiche che caratterizzano il Mosè. In particolare, trascurò completamente il particolare delle “corna” mosaiche.
Le letture antiche si mostrano qui più pertinenti e maggiormente capaci di aiutare nella contemplazione dell’opera. Così scrive il Condivi: Maravigliosa è quella di Mosè, duce e capitano degli Hebrei, il quale se ne sta a sedere in atto di pensoso e savio, tenendo sotto il braccio destro le tavole della legge e con la sinistra mano sostenendosi il mento, come persona stanca e piena di cure, tra le dita della qual mano escono fuore certe lunghe liste di barba, cosa a veder molto bella. È la faccia piena di vivacità e di spirito, e accomodata ad indurre amore e insieme terrore, qual forse fu il vero. Ha, secondo che descriver si suole, le due corna in capo, poco lontane dalla sommità della fronte. È togato e calzato e colle braccia ignude, e ogni altra cosa all’antica. Opera maravigliosa e piena d’arte, ma molto più, che sotto così belli panni di che è coperto, appar tutto lo igniudo, non togliendo il vestito la bellezza del corpo.
Il Vasari, qualche anno dopo, così descrive l’opera:
Finì il Moisè di cinque braccia, di marmo, alla quale statua non sarà mai cosa moderna alcuna che possa arrivare di bellezza, e delle antiche ancora si può dire il medesimo; avvengaché egli, con gravissima attitudine sedendo, posa un braccio in sulle tavole che egli tiene con una mano, e con l'altra si tiene la barba, la quale nel marmo, svellata e lunga, è condotta di sorte, che i capelli, dove ha tanta difficultà la scultura,son condotti sottilissimamente piumosi, morbidi, e sfilati d’una maniera, che pare impossibile che il ferro sia diventato pennello; ed in oltre, alla bellezza della faccia, che ha certo aria di vero santo e terribilissimo principe, pare che mentre lo guardi, abbia voglia di chiedergli il velo per coprirgli la faccia, tanto splendida e tanto lucida appare altrui, ed ha sì bene ritratto nel marmo la divinità, che Dio aveva messo nel santissimo volto di quello, oltre che vi sono i panni straforati e finiti con bellissimo girar di lembi, e le braccia di muscoli e le mani di ossature e nervi sono a tanta bellezza e perfezione condotte, e le gambe appresso e le ginocchia e i piedi sotto di si fatti calzari accomodati, ed e finito talmente ogni lavoro suo, che Moisè può più oggi che mai chiamarsi amico di Dio, poiché tanto innanzi agli altri ha voluto mettere insieme e preparargli il corpo per la sua resurrezione per le mani di Michelagnolo; e seguitino gli Ebrei di andare, come fanno ogni sabato, a schiera e maschi e femmine, come gli Storni, a visitarlo ed adorarlo, che non cosa umana, ma divina adoreranno.

Come già si è affermato per i Prigioni, anche gli studi preparatori per il Mosè debbono essere confluiti negli affreschi della volta della Sistina, in particolare nelle figure dei Profeti -si guardi, ad esempio, il profeta Geremia. La tomba di Giulio II e la volta della Sistina appaiono così, per molti versi, come due lavori che si richiamano in una ricerca espressiva che si approfondisce.
Michelangelo non realizzò mai le altre tre statue che dovevano occupare simmetricamente gli altri tre angoli superiori del primitivo progetto; sappiamo dai biografi antichi, come si è visto, che una di esse doveva rappresentare san Paolo. Si tornerà, nell’ultima parte di questo lavoro, sul significato che alcuni autori moderni vorrebbero attribuire al Mosè michelangiolesco, letto in chiave protestante; si può rilevare già qui che l’interpretazione delle figure di Mosè e di Paolo fu al centro della disputa che si aprì pochi anni dopo la morte di Giulio II, con l’emergere della figura di Lutero che contrapporrà in maniera radicale la Legge mosaica e la Grazia paolina, la prima rivelatrice del peccato originale e della impossibilità umana di giungere alla salvezza, la seconda apportatrice della grazia cristiana che sola strappa l’uomo dalle tenebre. Nella tomba di Giulio II Mosè e Paolo, invece, dovevano sedere l’uno a fianco dell’altro e, nella realizzazione finale del sepolcro che si colloca dopo che la crisi luterana era già scoppiata, Mosè può tranquillamente ergersi solitario senza il suo “compagno antitetico” annunziatore della grazia, proprio perché non è in primo piano la contrapposizione Legge/Grazia che caratterizzò allora la problematica della Riforma. I biografi antichi riferiscono altresì che le altre due statue angolari dovevano essere la Vita attiva e la Vita contemplativa (così il Vasari), anche se non se ne possiede certezza assoluta; certo è che queste sono le due figure poste nella versione finale della sepoltura, che è dinanzi ai nostri occhi, dove, nelle due nicchie a fianco di quella del Mosè troviamo a destra la Vita attiva ed a sinistra la Vita contemplativa. Il Condivi così descrive la statua alla destra del Mosè:
[Essa] rapresenta la Vita contemplativa, una donna di statura più che ‘l naturale, ma di bellezza rara, con un ginocchio piegato non in terra, ma sopra d’un zoccolo, col volto e con ambo le mani levate al cielo, sì che pare che in ogni sua parte spiri amore. Alla sinistra, invece: D’altro canto è la Vita attiva, con uno specchio nella destra mano, nel quale attentamente si contempla, significando per questo le nostre azioni dover essere fatte consideratamente, e nella sinistra una ghirlanda di fiori. Nel che Michelagnolo ha seguitato Dante, del quale è sempre stato studioso, che nel suo Purgatorio finge aver trovato la contessa Matilda, qual egli piglia per la Vita attiva, in un prato di fiori. Similmente si esprime il Vasari che così afferma[17]: Due [...delle nicchie] erano tonde dalle bande e vi dovevano andare le Vittorie, in cambio delle quali in una messe Lia figliuola di Laban per la Vita attiva, con uno specchio in mano per la considerazione che si deve avere per le azioni nostre, e nell’altra una grillanda di fiori per le virtù che ornano la vita nostra in vita e dopo la morte la fanno gloriosa. L’altra fu Rachel sua sorella per la Vita contemplativa con le mani giunte, con un ginocchio piegato, e col volto par che stia elevata in ispirito: le quali statue condusse di sua mano Michelagnolo in meno di un anno. Il suggerimento del Vasari che indica le statue accogliendo l’interpretazione del Condivi ma aggiungendovi i nomi delle due mogli di Giacobbe, Lia e Rachele, può essere accolto poiché proprio le caratteristiche che la Sacra Scrittura attribuisce loro -Lia, la più anziana, feconda di figli, Rachele, la più giovane, amata per la sua bellezza, sebbene per lungo tempo sterile- potrebbe coesistere con le due dimensioni della vita cristiana, quella attiva e quella contemplativa, che secondo la tradizione spirituale non possono essere separate.
Le note iconografiche della Vita attiva nella tomba di Giulio II sono la corona - importa meno che sia di fiori- simbolo di una vittoria, di un premio, di un merito riconosciuto, ed uno specchio, attributo che spesso troviamo indicativo della virtù della prudenza che cerca di cogliere tutti i pericoli, anche quelli che giungono posteriormente, per sapersene difendere; nel caso della virtù della Prudenza, lo specchio è posto in posizione verticale, per vedere dietro di sé. Nella Vita attiva michelangiolesca, invece, lo specchio è posto orizzontalmente, per potervisi specchiare: anche qui la lettura dei due biografi antichi sembra assolutamente da accogliere con lo specchio che è segno di una continua riflessione sulle proprie azioni perché siano buone e secondo il volere di Dio. La posizione orizzontale dello specchio ha indotto taluni autori moderni ad identificarlo con una fiaccola (ma ad essa mancherebbe evidentemente la fiamma!). La Vita contemplativa non è caratterizzata da alcuna nota specifica, ma è il corpo stesso a muoversi come avvitandosi verso l’alto, in uno slancio di fede verso la visione di Dio.
Sopra le due donne Michelangelo fece disporre a sinistra una Sibilla ed a destra un Profeta; è l’antichissimo tema iconografico, ripreso anche nella Sistina, dove sia l’antichità pagana con tutta la sua ricerca razionale e poetica rappresentata dalle Sibille e tutta la rivelazione veterotestamentaria rappresentata dai profeti divengono cammino preparatorio della venuta del Figlio. Le due statue non furono realizzate da Michelangelo, ma affidate a Raffaello da Montelupo, secondo la narrazione del Vasari.
In mezzo ad esse sta Giulio II, che la critica moderna, dopo i restauri dell’anno 2000, assegna alla mano di Michelangelo. Il pontefice è rappresentato con la tiara, coricato su di un fianco. Solo gli occhi chiusi indicano come egli sia stato sopraffatto dalla morte. Il sepolcro non contiene il corpo di Giulio II. I ripetuti rinvii della costruzione della tomba infatti, fecero sì che Giulio II fosse seppellito in un primo momento, nella cappella dove era già posta la tomba dello zio Sisto IV. Così spiega V.Noè, in merito alle vicende del corpo del pontefice:
Dopo la sua morte (1513) furono deposti nella basilica Vaticana, nella vecchia cappella del Coro costruita da Sisto IV, lo zio francescano di Giulio II, e dedicata all’Immacolata. Durante il sacco di Roma (1527), i lanzichenecchi violarono il sepolcro di Giulio e ne portarono via gli oggetti preziosi. Al momento della demolizione delle ultime strutture del vecchio San Pietro, le salme dei due papi della Rovere trasmigrarono in sagrestia, quindi nella nuova cappella del Coro, e poi ancora in quella del Santissimo Sacramento (1635). Nel 1926, per volere di papa Pio XI, le spoglie di Sisto IV e di Giulio II furono deposte in una tomba terragna, nella crociera destra di San Pietro, di fronte al sepolcro di Clemente X Altieri.
La tomba si trova così oggi, nella basilica vaticana, dietro il pilastro di Sant’Elena; insieme a Giulio II, vi è sepolto anche Sisto IV.
Nella basilica di San Pietro in Vincoli, subito sopra la tomba di Giulio II sta una Madonna in piedi con il Bambino, quasi a vegliare sul corpo del pontefice defunto, scultura che Michelangelo fece realizzare a Scherano da Settignano.
In cima all’intera opera sono posti quattro candelabri in pietra e lo stemma araldico dei della Rovere, con la quercia in esso.
Sconcertante appare la lettura moderna del Forcellino, ancor più a motivo della sua competenza in materia; l’evidente precomprensione ideologica nella quale si fa avviluppare rende miope la sua analisi che riduce la forza e la bellezza dell’opera.
La sua riflessione si sviluppa a partire dalle due ultime statue realizzate ex novo da Michelangelo a partire dal 1542 per la tomba -e, cioè, come si è visto, la Vita attiva e la Vita contemplativa. È subito evidente, anche se espressa confusamente, la tesi che il Forcellino vuole sostenere: Michelangelo avrebbe privilegiato, in ossequio ad una impostazione cripto-luterana, il primato della grazia sulle opere. Ne consegue che le due statue simmetricamente disposte vengono, invece, da lui viste in una disposizione gerarchica, poiché “La fede salva [...] la carità non salva” (dove la “fede” sta per la Vita contemplativa e la “carità” per la Vita attiva).
La corona tenuta in mano dalla Vita attiva, che è iconograficamente simbolo di vittoria e di merito, viene invece vista dal Forcellino come “simbolo di carità per il suo perenne verdeggiare e la sua circolarità senza fine”. Lo specchio diviene una “lucerna il cui fuoco è alimentato dai capelli stessi che vi finiscono dentro [...] simbolo dei pensieri buoni che ispirano la carità”.
[La competenza del Forcellino si manifesta nelle notazioni di restauro che lo portano ad attribuire definitivamente a Michelangelo la figura del pontefice defunto: è, forse, la novità più rilevante della ricerca al termine del Progetto Mosè, nome con cui si scelse di indicare il lavoro di restauro dell’intera tomba. Ma, subito, la lettura scivola nell’ideologia ed il Forcellino afferma della statua di Giulio II: “[Le mani del pontefice] sono le mani della resa, della consapevolezza dell’inutilità e vanità dell’operare, perché non da questo sarà determinato il destino eterno”, dove l’espressione “vanità dell’operare” nuovamente cerca di insinuare l’adesione ad una posizione filo-luterana. La postura delle mani scolpite viene inoltre ricondotta ad “un altro sentimento [...]: quello di un ritorno della Chiesa a una dimensione puramente spirituale, lontana dal governo temporale e dai nefandi commerci sviluppati in suo nome”.Neanche un accenno al fatto che tutto questo, se fosse vero, implicherebbe un’accusa di ipocrisia rivolta a Michelangelo per il suo attaccamento che sempre lo legò alla figura di Giulio II e che sarebbe allora solo finzione. Ancor più sarebbe incomprensibile la decisione di lavorare fino alla morte all’edificazione della basilica di San Pietro, come primo responsabile della Fabbrica –incarico che ricevette dopo la realizzazione della sepoltura di Giulio II- cioè dell’intero progetto della nuova basilica, della quale Michelangelo riuscì a vedere realizzato, secondo la sua concezione, il tiburio della cupola.
Ma più ancora dell’evidente incongruenza che si verrebbe a stabilire fra le realizzazioni dell’artista ed i suoi sentimenti, il danno ermeneutico maggiore che deriva dalla precomprensione del Forcellino consiste nell’incapacità di vedere nella scultura il dramma della morte che viene rappresentata nel pontefice i cui occhi si chiudono. L’opera non esprime una posizione teologica sul rapporto fede/opere, bensì esprime il mistero del morire che tocca umili e potenti, senza che alcuno possa sottrarvisi. La piccola croce che è scolpita sulle vesti del pontefice starebbe, per il Forcellino, a rappresentare la tesi luterana che solo la croce salva. Dichiarare che in quel segno è da cogliersi la chiave di lettura della figura del pontefice comporterebbe affermare al contempo che Michelangelo non sia stato in grado di esprimersi nella scultura, tanto è secondario quel particolare nel contesto dell’insieme.]
Il punto più basso viene toccato dal Forcellino nell’analisi della figura di Mosè. Anche qui dalla sua competenza di restauratore che sa valorizzare l’affermazione di un anonimo testimone che riferì al Vasari come l’artista riuscì in due giorni ad ottenere una roteazione della testa del Mosè conferendo ancora più espressività all’opera, il Forcellino passa ad una rilettura ideologica di questo intervento michelangiolesco affermando:
Forse sulla scelta di girare il volto del profeta pesò anche la presenza dell’Altare delle catene sul lato opposto del transetto dove era collocato il Mosè. Questo altare era il simbolo della superstizione cattolica e il fondamento di quel potere temporale che continuava a rivendicare una Chiesa in cui Michelangelo non si riconosceva più. Un’antica tradizione raccontava che un frammento delle catene che avevano tenuto prigioniero san Pietro si era miracolosamente saldato ad un frammento ritrovato in Palestina quando Eudossia sposò Valentiniano, segnando l’unità simbolica dell’impero sotto la nuova fede cristiana. Se Mosè avesse posato lo sguardo diritto in avanti, com’era nel primo progetto, avrebbe posato lo sguardo proprio su quell’altare, mentre con la mirabolante modifica volgeva lo sguardo verso la luce che scendeva da una finestra aperta proprio alla sua sinistra e oggi purtroppo tamponata. Il raggio di luce che illuminava i suoi “corni” al tramonto sarebbe stato il completamento spirituale a cui tutto il movimento tendeva.
Si da qui per scontato che le catene siano il fondamento del potere temporale della Chiesa, mentre, semmai, esse sono state uno dei simboli del potere dell’impero bizantino, come si è già visto. L’esistenza dello stato della Chiesa ha tutt’altra origine e, soprattutto, tutt’altra simbologia. Ma, ancora una volta, è l’opera stessa che ne esce banalizzata. La torsione del viso sarebbe stata pensata, secondo il restauratore, per levare il viso dalle catene e rivolgerlo verso una finestra o la sua luce. Il visitatore della basilica può ben rendersi conto di dove sia questa finestra di cui parla il Forcellino e, conseguentemente, della scientificità di questa affermazione. Tutta l’espressività del volto del Mosè passerebbe così in secondo piano rispetto ad una finestra verso la quale Michelangelo avrebbe concentrato la sua attenzione.

La lettura iconografica del Forcellino si appoggia su di una ricostruzione degli ambienti che Michelangelo frequentò in quegli anni. La semplificazione storica va qui di pari passo con la banalizzazione della lettura iconografica. Sotto la dicitura “una passione eretica” si accenna alla amicizia che legò Michelangelo a Vittoria Colonna e questa al circolo di intellettuali che si radunò intorno al cardinal Reginald Pole, in Viterbo (il “divin Polo”, come lo chiama la Colonna in uno dei suoi sonetti poetici).

Proprio la grande figura del Pole – ma lo stesso si potrebbe dire dei cardinali Contarini, Cervini, Morone e Carnesecchi, legati da visioni teologiche ed ecclesiali comuni- smentisce la tesi di una corrente eretica, a lui facente capo. Basti pensare al fatto che il Pole dovette fuggire dalla corte di Enrico VIII, per non subire, con tutta probabilità, la stessa fine di Thomas More; che, a motivo della sua partenza dall’Inghilterra, il sovrano inglese fece giustiziare la madre del Pole, Margherita, in quanto cattolica, nel 1541, cioè un anno prima che Michelangelo iniziasse la realizzazione della Vita attiva e della Vita contemplativa; che il Pole fu uno dei tre legati pontifici, scelti da Paolo III per le sessioni di apertura del concilio di Trento; che, nonostante il Tribunale dell’Inquisizione nutrisse sospetti sulla cosiddetta ecclesia viterbensis che si riuniva intorno al Pole, il papa Paolo III bloccò ogni iniziativa in merito, per la fiducia che nutriva in loro; che, alla morte di Paolo III nel 1549, il Pole fu a lungo uno dei principali candidati del conclave non venendo eletto per la mancanza di un solo voto; che, negli anni successivi, il Pole tornò in Inghilterra al seguito di Maria la Cattolica, sotto il cui regno fu l’ultimo arcivescovo cattolico di Canterbury.

Con questi riferimenti storici non si vogliono minimamente mettere in ombra altri fatti, come ad esempio, il ritorno del Pole da Trento, probabilmente non a motivo dei problemi fisici dichiarati, ma per il disaccordo su di una linea di rottura ancora più esplicita che si andava profilando con i luterani. Si vuole piuttosto rilevare come sia da correggere la visione che si ha della Chiesa del tempo. Proprio quel Pole che esprimeva riserve su di uno scontro aperto con i luterani era un pupillo del pontefice ed era il candidato su cui potevano confluire i due terzi meno uno dei voti del conclave. È l’evidenza di quella realtà che la storiografia moderna chiama “riforma cattolica”. Il Pole, saldamente all’interno della gerarchia cattolica, mentre esprimeva perplessità sulle dottrine protestanti, allo stesso tempo lavorava per una conciliazione e per una riforma interna della chiesa cattolica.

Fu solo nei decenni successivi che l’Inquisizione cercò di sottoporre a processo alcuni dei cardinali di cui si è parlato. Negli anni 1542-1545, gli anni nei quali fu portata a compimento la tomba di Giulio II, niente di tutto questo ancora accadeva. Non si fronteggiavano una cripto-eresia (del quale il Pole sarebbe stato il leader) ed una chiesa ufficiale, bensì un dibattito pubblico avveniva nella Chiesa cattolica che cercava una linea al contempo di rifiuto di alcune dottrine non conformi alla tradizione e di una riforma interna sentita come non rinviabile.
Quanto al testo che viene continuamente evocato nel dibattito sul Mosè michelangiolesco, ossia Il beneficio di Cristo scritto dal monaco Benedetto da Mantova e rielaborato da Marcantonio Flaminio, è importante rilevare come questo trattato di spiritualità manifesta una lettura della figura mosaica in piena opposizione con quanto Michelangelo esprime nella sua opera. Come è noto, infatti, nel Beneficio di Cristo, la Legge mosaica non è vista come prefigurazione della salvezza del Cristo, bensì espressamente come sua antitesi.

Infatti, afferma il testo del Beneficio nella revisione del Flaminio, l’uomo con il peccato originale “diventò simile alle bestie e al demonio” e la natura umana venne “condennata alle miserie dello inferno”. Fra le funzioni della Legge mosaica c’è certo quella “più eccellente [...] è che dà necessità all’uomo di andar a Cristo”, ma questa è preceduta da altre quattro finalità: essa “fa conoscere il peccato”, essa fa inoltre “crescere il peccato, perché, essendo noi separati dalla ubbidienza di Dio, e fatti servi del diavolo, e pieni di viciosi affetti e appetuti, non possiamo tolerare che Dio ci proibisca la concupiscenza”, essa ancora “manifesta l’ira e il iudicio di Dio, il qual minaccia morte e pena eterna a quelli che non osservano pienamente la sua Legge” ed, infine, “spaventando l’uomo, il quale viene in disperazione e vorrebbe satisfare alla Legge, ma vede chiaramente che non può e, non potendo, si adira contro Dio e non vorrebbe che Egli fusse”.

L’accento, insomma, non è su Mosè come testimone della pura grazia, quanto piuttosto sulla “maledizione della Legge” mosaica, dalla quale solo Cristo può liberare. La Legge ha così lo scopo precipuo di manifestare l’irrimediabile condizione di peccato nel quale l’uomo si trova. Il Beneficio di Cristo titola, infatti, il secondo capitolo: “Che la Legge fu data da Dio, acciocché noi, conoscendo il peccato e disperando di poterci giustificare con le opere ricorressimo alla misericordia di Dio e alla giustizia della fede”.
Quando il Forcellino afferma che “Mosè per tradizione veniva associato a Cristo, portatore della legge salvifica prima del sacrificio e pertanto suo antesignano nel Vecchio Testamento” non si accorge di affermare proprio il contrario di ciò che Il beneficio di Cristo pone in evidenza.
Non resta che invitare tutti ad ammirare la tomba di un pontefice, Giulio II, “così come è ella rattoppata e rifatta”, come afferma il Condivi, da Michelangelo, ma assolutamente splendida, non ideologica e capace di esprimere nella sua bellezza il mistero della morte e quello della vita











Conclusione



- amare la fede e amare la laicità, insieme

- guide che usano il “noi” della Chiesa, senza includervi i turisti: se siete credenti, non è contro la laicità mostrare il vostro gesto di preghiera, senza chiederlo ai vostri clienti







Note al testo



[1] Cfr. su questo Nella tempesta della Riforma luterana: la straordinaria storia di Caritas Pirckheimer e delle clarisse di Norimberga (da M.C. Roussey – M.P. Gounon) disponibile on-line sul sito del Centro culturale Gli scritti.

[2] Si veda su questo La Norvegia non ha più, dal gennaio 2017, il luteranesimo come religione di Stato e diviene così finalmente laica come l'Italia (la Svezia aveva cessato di essere uno Stato confessionale luterano solo nell’anno 2000). Breve nota di Giovanni Amico, disponibile on-line sul sito del Centro culturale Gli scritti.

[3] Cfr. I primi anni della riforma anglicana ed i cattolici inglesi da Enrico VIII ad Elisabetta I, di Andrea Lonardo e I martiri cattolici della riforma anglicana sotto Enrico VIII ed Elisabetta I, on-line sul sito del Centro culturale Gli scritti..

[4] Cfr. su questo Dal Vangelo secondo Shakespeare... Un’intervista di Paolo Pegoraro al prof. Piero Boitani, disponibile on-line sul sito del Centro culturale Gli scritti.

[5] Cfr. su questo P. Spinucci, Teatro elisabettiano teatro di stato. La polemica dei puritani inglese contro il teatro nei secc. XVI e XVII, Olschki, Firenze, 1973, con la breve recensione disponibile on-line La censura degli spettacoli in età elisabettiana e la chiusura dei teatri durante il governo di Cromwell, negli anni di Galilei e del teatro barocco. Appunti di Andrea Lonardo sul volume di P. Spinucci, Teatro elisabettiano teatro di stato. La polemica dei puritani inglese contro il teatro nei secc. XVI e XVII.

[6] Cfr. su questo La “democrazia” di Cromwell non bandì solo il teatro, ma proibì anche gli strumenti musicali. Appunti di Andrea Lonardo, disponibile on-line.


Fonte:
Centro culturale "Gli scritti"













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"[...] Non abbiate paura!
APRITE, anzi, SPALANCATE le PORTE A CRISTO!
Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo.
Non abbiate paura!
Cristo sa "cosa è dentro l’uomo". Solo lui lo sa!
Oggi così spesso l’uomo non sa cosa si porta dentro,
nel profondo del suo animo, del suo cuore.
Così spesso è incerto del senso della sua vita su questa terra.
È invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione.
Permettete, quindi – vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia – permettete a Cristo di parlare all’uomo.
Solo lui ha parole di vita, sì! di vita eterna. [...]"


Papa Giovanni Paolo II
(estratto dell'omelia pronunciata domenica 22 ottobre 1978)



 
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